il Fatto Quotidiano, 4 luglio 2020
Il film francese sugli agricoltori
Per ritornare in sala, in tempi di Covid-19, ci vuole una buona ragione: Nel nome della terra è addirittura ottima. Per sintassi cinematografica, resa stilistica, prove attoriali e, sopra tutto, storia che è storia vera merita di essere visto, sul grande schermo. Lo distribuisce dal 9 luglio la sempre sorprendente Movies Inspired, e se temete il fondo di magazzino, l’invisibile di turno e altre amenità vi sbagliate di grosso: Au nom de la terre, esordio al lungometraggio di finzione del fotoreporter Edouard Bergeon, in Francia ha avuto più di due milioni di spettatori, tre nomination ai César 2020 ed è diventato argomento di discussione nazionale. Facile capire perché: la MSA (Sécurité Sociale Agricole) stima che Oltralpe si tolga la vita un agricoltore ogni due giorni, e Bergeon nei bellissimi paesaggi delle Alpi Mancelles trova il luogo, una fattoria familiare e insieme simbolica, il reato, istigazione al suicidio, e il colpevole, l’ultracapitalismo.
Al tema aveva già dedicato il documentario I figli della terra, per cui riceve “regolarmente email da famiglie che testimoniano la morte di un genitore. Inoltre, sappiamo che ogni anno in Francia scompaiono diecimila fattorie”. Un perfetto e devoto – la chierica non è protesica, se l’è fatta sul serio – Guillaume Canet interpreta Pierre Jarjeau: bello e appassionato, ha venticinque anni quando torna dal Wyoming per riabbracciare la sua Claire (Veerle Baetens, super) e, lui provetto cavallerizzo, prendere le redini della fattoria di famiglia. Venti anni più tardi, l’azienda zootecnica e agricola s’è allargata, e così la famiglia: Thomas (Anthony Bajon, ne sentiremo parlare) ed Emma, e i quattro non potrebbero stare meglio. Eppure, il futuro è una terra straniera: l’amore coniugale e filiale non può quasi nulla, il padre (Rufus) dickensiano potrebbe ma no, Pierre si ammazza di lavoro, i debiti si accumulano, l’orizzonte s’incupisce. Stare con i piedi per terra non elude la follia, anzi: Pierre non regge fisicamente e psicologicamente; fumo, alcool e farmaci lo prendono per mano; prestiti, diversificazione (accanto alle capre i polli) e amministrazione controllata lo prendono per la gola. Ci fa male questa felicità perduta, perché Pierre e famiglia sono buoni, e l’evoluzione scellerata del mondo agricolo degli ultimi quarant’anni li condanna, povericristi, all’estinzione: andarsene o morire. Una tragedia che richiede misura, controllo e un surplus di umanità, Ebergeon assolve: venire a sapere che ha plasmato Pierre a immagine e somiglianza del proprio padre fa sussultare d’ammirazione e persino gridare alla vendetta – artistica – compiuta.
Sarebbe piaciuto a Ermanno Olmi, e piacerà a chiunque capisca di cinema e di vita: nel nome del padre si può morire, nel nome della terra si può morire, ma un film può sublimare. E aprire alla speranza: non che il mondo, agricolo e tutto, migliori, ma che una storia ben raccontata rimanga. Nel nome del figlio.