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 2020  luglio 04 Sabato calendario

Perché i giapponesi vogliono tornare in ufficio

Kenji ha 48 anni, è sposato e ha due figli di 9 e 11 anni. Vive a Chiba, alla periferia di Tokyo. Per andare in ufficio in genere ci mette un’ora, in media con la maggior parte degli impiegati, dei “salary-men” della capitale. Sua moglie è più fortunata, insegna nella scuola dove vanno i loro figli: normalmente ci vanno a piedi, tutti insieme, la mattina.Tutti hanno accolto la fine del lockdown (si fa per dire: il Giappone ne ha adottato uno molto blando, fatto di consigli e suggerimenti, più che di ordini e decreti) con grande sollievo. Dopo quasi tre mesi passati chiusi in casa, cercando una impossibile forma di convivenza, finalmente possono “respirare”. Reiko, la moglie, e i figli la mattina escono, vanno a scuola, e fino al pomeriggio inoltrato Kenji resta solo in casa, diventata il suo ufficio. «Ma è stata dura, molto dura. Gli spazi sono quelli che sono – racconta Kenji – viviamo in 50 metri quadrati, e in casa c’è solo un tavolo: è stato un incubo, e con mia moglie ora si parla di divorzio». Un incubo, quello del cosiddetto smart working, condiviso da migliaia di lavoratori. Secondo uno studio condotto dal sindacato Rengo, il 66% degli intervistati, equamente divisi tra operai e impiegati, dichiara di non trovarsi bene e di non veder l’ora di tornare in fabbrica/ufficio.
«Alla fine si lavora di più, in condizioni difficili, e dunque a rischio di errore – Jun Ishino, che ha collaborato alla realizzazione dello studio – gli straordinari sono riconosciuti ancor di meno del solito ed i lavoratori debbono affrontare tutta una serie di spese che l’azienda non rimborsa: dai contratti Internet per la banda larga, spese per il collegamento, accessori, spesso aggiornamento dei dispositivi di lavoro, come l’acquisto di un nuovo cellulare o di un tablet. Alla fine si lavora di più, si guadagna di meno e lo stress aumenta». Nei media c’è già il termine, corona rikon: “divorzio per Corona”. Nei Comuni c’è la fila: per avere un appuntamento – in Giappone per il divorzio consensuale basta andare in comune e dichiarare le proprie intenzioni di fronte ad un funzionario – servono almeno due mesi, in genere bastano pochi giorni. «Da un certo punto di vista è un bene – sostiene Kuniko Inoguchi, docente di diritto di famiglia ed ex ministro delle pari opportunità ai tempi del premier Koizumi – le coppie hanno tempo per ripensarci. Ma il fenomeno è reale, e molto preoccupante. Questa emergenza ci ha fatto aprire gli occhi sulla crisi sempre più profonda della famiglia e sull’arretratezza informatica del nostro Paese». Già: uno degli ostacoli maggiori alla realizzazione dello smart working e alla titubanza con cui le aziende giapponesi vi fanno ricorso è lo scarso tasso di digitalizzazione della società giapponese. A Tokyo e Osaka, le città più importanti, meno del 30% delle abitazioni è raggiunto dalla banda larga, in tutto il Paese siamo sotto al 10%. In Corea del Sud, per citare uno dei Paesi più avanzati nel settore, la banda larga raggiunge il 70% del territorio nazionale.
In Giappone invece per essere connessi, ed in modo stabile, come è indispensabile per lavorare in teleworking, occorre sottoscrivere un nuovo contratto, affrontarne i costi e poi risolvere il problema degli spazi, cercando di conciliare le proprie esigenze con quelle del consorte e dei figli. Una situazione che per molti diventa drammatica, al punto che si finisce per dover cercare un’altra soluzione.
Un’area pubblica dotata di wifi, caffè e ristoranti, oppure una stanza d’albergo. In questi mesi i molti hotel, presenti ovunque ed in abbondanza, si sono trasformati in work hotel, mettendo a disposizione, a tariffe stracciate, le proprie stanze durante il giorno. «Anche io ci sono andato qualche volta – ammette Kenji – ma non si è rivelata una buona soluzione: mancava una scrivania e la connessione era lentissima. Alla fine tornavo a casa ancora più stressato, e finivo per litigare con tutti».
«Nel mio caso tutto sommato lo smartworking può e deve funzionare – spiega Kenji, che lavora in uno studio di design – e infatti penso che molte aziende finiranno per proporlo e adottarlo di routine, per i propri dipendenti... ma per gli uffici più convenzionali, specie quelli pubblici è impraticabile.La nostra cultura del lavoro – conclude – si fonda sulla presenza fisica: il controllo visivo dei colleghi e dei dirigenti. A lavorare da casa ti senti quasi in colpa, sei insicuro, ti distrai facilmente e tutto questo viene percepito dai dirigenti. Spero proprio di poter tornare al più presto in ufficio».