Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2020
Il Covid accelera il calo nascite
Tra le eredità con cui l’Italia potrebbe trovarsi a fare i conti dopo la pandemia c’è un ulteriore calo delle nascite. Una simulazione Istat proposta nel Rapporto annuale 2020 presentato ieri dal presidente Gian Carlo Blangiardo a Montecitorio, ipotizza una riduzione fino a 10mila nascite, ripartite per un terzo nel 2020 e due terzi nel 2021. Ma la dinamica potrebbe addirittura peggiorare nell’ipotesi di forti choc occupazionali. I 435mila nati del 2019 e i 428mila ipotizzati quest’anno nello scenario pre Covid scenderebbero così a circa 426mila nel bilancio finale 2020, per poi ridursi a 396mila, nel caso più sfavorevole, in quello del 2021. Blangiardo ha spiegato che il nuovo calo si aggiunge a un trend in atto da lungo tempo: «sembra a questo punto possibile già nel prossimo anno il superamento al ribasso di quel confine simbolico dei 400mila nati annui che, stando alle previsioni Istat più recenti, sarebbe dovuto avvenire solo nel 2032 nell’ipotesi ritenuta (prima del Covid) più pessimistica».
La pandemia ha colpito un Paese fragile e vulnerabile, dove oltre un milione di famiglie conosce solo lavoro irregolare, le opportunità di miglioramento sociale si riducono soprattutto per i più giovani e un tessuto diffuso di piccolo e micro-imprese fatica ad autofinanziare le proprie attività o a trovare in banca la liquidità necessaria per sopravvivere. La fotografia offerta dal Rapporto restituisce un’immagine doppia dell’Italia. Prima della nuova crisi e nel bel mezzo dei lockdown di primavera. Un doppio scatto che coglie debolezze di lungo corso – come gli svantaggi delle donne su un mercato del lavoro che a fine 2019 contava 519mila unità in più rispetto al 2008 nonostante tra i giovani di 25-34 anni gli occupati erano oltre 1 milione e 400mila in meno – e le novità imposte dall’emergenza sanitaria. Tra queste c’è naturalmente lo smartworking: tra aprile e maggio hanno lavorato in remoto circa 4,5 milioni di persone (il 18,5% degli occupati) su un potenziale di circa 7 milioni di lavoratori che, oggi si apprende, potrebbero farlo anche in un contesto di normalità. Nel 2019 solo 408mila dipendenti avevano utilizzato la propria abitazione come luogo principale o secondario di lavoro.
L’altra fragilità messa alla prova dall’epidemia riguarda le imprese. Con l’ultima ripresa ciclica (2014-2017) la base produttiva persa durante la precedente recessione non è stata ricostruita. Nel 2017 si contavano ancora quasi 80mila imprese (-1,7%) e 125mila addetti (-0,7%) in meno rispetto al 2011, con un valore aggiunto inferiore dell’1,9%. Il sistema è ancora frammentato ma le interconnessioni si sono diffuse e il Censimento permanente delle imprese rivela come le aziende rimaste attive nel corso del lockdown appartengano soprattutto a comparti con relazioni di filiera intensi. La base più resiliente è qui. Ma il ritorno ai livelli pre-crisi potrebbe richiedere tempi piuttosto lunghi, visti gli effetti delle sospensioni: la caduta del valore aggiunto complessivo, rispetto a uno scenario di riferimento con assenza di shock, è pari al 10,2% ed è determinata per 8,8 punti percentuali dalle dinamiche interne e per 1,4 punti dagli effetti “importati”. Di questi ultimi, 0,2 punti sono ascrivibili alla riduzione di domanda tedesca, 0,4 alla dinamica dell’area euro (esclusa la Germania) e 0,8 al resto del mondo. Dunque le condizioni per una ripresa vera ci sono ma non tutte sono influenzabili con misure di politica economica nazionali.
I numeri dell’epidemia sono noti: oltre 240mila contagi, poco meno di 35mila decessi, con un’asimmetria tutta a carico dei più anziani e i meno istruiti. A questi numeri il Rapporto ha accostato quelli lasciati sul Sistema sanitario nazionale dalla lunga stagione delle spending review. Dal 2010 al 2018 la spesa sanitaria pubblica è aumentata solo dello 0,2% medio annuo a fronte di una crescita economica dell’1,2%. Il rallentamento è dovuto principalmente alla diminuzione del personale. Sul 2012 il calo è del 4,9% e ha riguardato anche medici (-3,5%) e infermieri (-3,0%). L’Italia oggi ha 39 medici ogni 10mila residenti, un numero sensibilmente inferiore a quello della Germania (42,5). Ancora più sfavorevole il confronto con il personale infermieristico: 58 per 10mila residenti contro i 129 tedeschi.
Secondo il presidente della Camera, Roberto Fico, «occorre che alla sanità pubblica siano destinate risorse adeguate per ammodernare le strutture ed assumere il personale qualificato necessario per assicurare che il diritto alla salute continui ad essere fruito in maniera universale».