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 2020  luglio 04 Sabato calendario

Diario di scrittura di Paola Mastrocola

Non avevo nessuna voglia di scrivere, in quei giorni. Nemmeno una pagina, figurarsi un libro. Avevo voglia di muovermi, trafficare per casa. Fare ordine, fare molto ordine. Nei cassetti, negli armadi, sotto il letto, in garage, nelle cartelline, in dispensa, sugli scaffali della libreria, tra i vari file del computer. Salvare, archiviare, ricopiare, schedare. 
Avevo anche l’idea che, rinchiusa in casa, non avrei mai più scritto neanche un rigo. Io scrivo solo se vado fuori, a scrivere. Vado alla Biblioteca Nazionale, in quella piazza magnifica che è piazza Carlo Alberto, davanti al Museo del Risorgimento, a un passo da Palazzo Carignano. Uno splendore. Ho bisogno di essere immersa in quello splendore, per scrivere, e di arrivarci a piedi, facendo il ponte della Gran Madre, piazza Vittorio e tutta via Po, fermandomi ogni tanto, a prendermi un caffè, a guardar vetrine. 
Scrivere durante quel periodo, poi… Non ci pensavo neanche. Prendermi il lusso, avere la presunzione, esercitare il diritto d’inventare, o peggio ancora esprimere sentenze, giudizi, opinioni… Chi è uno scrittore? Come si permette? Cosa avrà mai da dire di così speciale, quando intorno c’è burrasca e siamo tutti inermi e confusi? Di colpo il mio mestiere mi sembrava impotente, inadeguato. Forse persino inopportuno.
E poi invece… Succedono cose che uno scrittore non prevede, e non è in grado di controllare nemmeno un po’: un bel giorno si siede una talpa, sulla mia scrivania. E comincia a parlare e parlare, concitata, impaurita, addolorata, divertita, spersa. Non la finisce più, sembra una talpa in piena. Inarginabile. Mi sembra impossibile che qualcuno abbia così tante cose da dire. Mi metto ad ascoltarla. Mi distrae, mi porta via.
E lei racconta. Tutto quel che vede, al buio, con i suoi occhi opachi, nella tana sottoterra o quando esce a distendersi sulla sua montagnola di terra smossa, o s’avventura più in là, tanto per sgranchirsi un po’ le zampe. Si lamenta sempre, delle sue anche anchilosate, e si diverte con quell’assonanza: Anche anchilosate, anche anchilosate... Racconta lo sconcerto di tutta quella massa di persone che non sono mai state talpe e che ora, con sorpresa e imbarazzo, lo sono diventate. I negozi chiusi. Il trionfo di internet. La paura di far la spesa, sfiorarsi, parlarsi troppo da vicino. Il tranello dello smart working. Il desiderio inappagabile di passeggiare all’aria aperta. Gli amori che diventano lontani, gli amici irraggiungibili. 
A volte si fa ombrosa, si rammarica di saperne poco, di vivere così all’oscuro. Pensa che siamo tutti abbandonati, ognuno al proprio destino. Si interroga su cosa chiamare Destino, Fortuna, o Dio. Su cosa è governabile e cosa non lo è. È una che s’interroga molto, fantastica, medita, arzigogola. Ha tutto questo tempo sotterraneo e isolato, una talpa; che deve fare, se non arzigogolare? 
Ci sono cose che non sopporta, che la fanno uscire pazza. Per esempio chi parla di meravigliose opportunità. O chi dice che tanto dobbiamo morire tutti, che problema c’è? O che andrà tutto bene e siamo bravissimi, il Paese migliore al mondo. Patisce molto le frasi fatte, i luoghi comuni, le solite tiritere. E non le va di obbedire a ordini di cui non capisce il senso: Adesso state fermi! Adesso uscite tutti! È stufa, tormentata. Uscire o non uscire, ripartire o non ripartire? Non è facile. E ha il sospetto che a comandare la nostra libertà sia soltanto l’economia.
Prova anche a immaginarsi il mondo che ci aspetta. E qui si fa seria, e più confusa che mai. Si chiede a quante cose dovremo rinunciare, se ne saremo capaci o cercheremo di riprenderci quel che avevamo, senza perdere neanche uno spillo. Se ci verrà la fantasia di immaginare altri modi di vivere, o resteremo abbarbicati al nostro, come patelle sullo scoglio. Per esempio lei è abbarbicata a caffè e brioche al bar tutte le mattine… Riuscirà a farne a meno? Scuote la testa. Ha paura che rifaremo tutto uguale a prima. Dice che siamo testardi e conservatori. Che c’è un’inerzia, in giro, un attaccamento alle abitudini difficile da sradicare.
Le è molto chiaro che il nostro mondo poggia su tre pilastri, e che non permetteremo a nessuno di abbatterli: relazioni, viaggi e consumi. Per mesi abbiamo vissuto al contrario: soli, fermi, e senza fare acquisti. Niente scarpe, vestiti, estetista, giocattoli, viaggi, palestra, enalotto, parrucchiere. Un esercizio di vita morigerata stile anni cinquanta. Risparmi e sacrifici. Ci è piaciuto? Manco per niente. Soffriremo tantissimo, se dovremo viaggiare meno, andare meno al ristorante, entrare meno nei negozi. Quindi – le chiedo - riusciremo a cambiarlo o no, il mondo? Scuote di nuovo la testa. 
Mentre parla, io mi diverto a disegnarla. La talpa mi è congeniale. Mi sento naturalmente affine. E, abitando in mezzo a un prato, ho una dimestichezza visiva con le talpe. Più con le loro montagnole, visto che di talpe mai vista una. Mi piace, questo rapporto fantasmatico con un animale che c’è ma non si vede, vive rintanato ma sparge segni di sé. E poi avevo già disegnato talpe, un’infinità di talpe, per un bellissimo racconto di Ernesto Ferrero… 
Lei mi lascia fare. Mi guarda mentre la disegno. Secondo me a un certo punto pensa che siamo uguali, io e lei. Che siamo la stessa persona. Una notte le scrivo una lettera (la trovate in fondo al libro). Siamo all’inizio di marzo e c’è una gran paura, qui, tutt’intorno, gli alberi scossi dal vento, brividi di freddo. Mi viene all’improvviso questo desiderio, di confidarle quel che lei non può sapere, di me. 
No, non siamo la stessa persona.
O sì? 
Un pomeriggio sfido la sorte e esco. Vado in un negozio di attrezzi da giardino e mi compro una vanga. Proprio come quella che usa lei per scavare gallerie. La vedo appesa a una parete, bella, luccicante, e non resisto. Non so dire il perché. 
Il confine tra finzione e realtà è sempre così labile e impreciso.