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 2020  luglio 04 Sabato calendario

Intervista a Silvio Orlando

Non avrà fatto la gioia dei vicini. Lo dice lui stesso, con uno di quei suoi sorrisi tra parentesi. Per Silvio Orlando il tempo del lockdown «non è stato né morto né sprecato. Ho ripreso in mano il flauto, una vecchia passione, e ho deliziato chi mi abita accanto... E poi ho letto libri che da tanto volevo leggere. Alla fine le giornate erano frenetiche, arrivava la sera e mi rendevo conto di non essere riuscito a fare tutto quello che avrei voluto». Adesso è l’ora di tornare in scena: stasera al Cortile della Reggia del Real Bosco di Capodimonte Orlando dirige e interpreta La vita davanti a sé, dal testo di Romain Gary, per il Napoli Teatro Festival. È la storia di Momò, bambino arabo di dieci anni che vive nel quartiere multietnico di Belleville a Parigi, nella pensione di Madame Rosa, un’anziana ex prostituta ebrea. 
Da La vita davanti a sé al Bambino nascosto di Roberto Andò che inizierà a girare a settembre, i suoi impegni hanno tutti a che fare con il nodo della genitorialità . Come mai?
«Invecchiando la paternità è sempre di più il mio pallino. Non sono stato figlio perché ho perso mia madre molto presto, ma non sono stato nemmeno padre, per me questo è un territorio sensibile. Mi sento soprattutto orfano e, quando vado a indagare nelle motivazioni profonde per cui faccio questo mestiere, sento sempre che alla base c’è la ricerca di amore, di attenzione, il bisogno di riparare a un deficit».
Non ha avuto voglia di diventare padre?
«Questa è veramente la porta impossibile da aprire. Per una donna esiste un’età, tra i 30, 40, 50 anni, in cui la necessità di un figlio può diventare drammatica, poi si stempera. Per un uomo è tutto il contrario, all’inizio non ci si pensa nemmeno, poi cresce dentro il vuoto. Per un uomo avere un figlio è quasi un fatto culturale, per una donna è antropologico, biologico». 
Ha mai pensato di raccontare tutto questo passando dietro la macchina da presa?
«Si, ci ho pensato. Un’idea bella ce l’ho, la storia di due persone che non riescono ad avere figli. Dopo l’ultimo tentativo disperato di fecondazione assistita, la donna ruba un bambino a un gruppo di zingari con cui, a un certo punto, lei e il marito si ritrovano a dover tentare una difficile convivenza. Potrei diventare un "giovane" regista, ma so che per farlo c’è bisogno di una disciplina mentale e di un’organizzazione pratica che, come attore, non mi appartengono proprio ».
Ha avuto la fortuna, ma anche la pazienza, di lavorare con due dei registi più esigenti della scena internazionale, Nanni Moretti e Paolo Sorrentino. Come ci si è trovato?
«Tenerli insieme nella stessa vita è già una scommessa. Sono molto diversi, l’arrivo a Nanni è stato in qualche modo naturale, è il cantore della nostra generazione. Con Paolo, invece, è stato un fulmine a ciel sereno, venivo da un paio di anni micidiali, del cinema mi ero un po’ disamorato. La chiamata di Paolo è stata come un segno, un regalo inaspettato, ho dovuto cancellare con un colpo di spugna l’idea che il pubblico si era fatta di me. E poi bisognava confrontarsi con una macchina infernale, con la durata gigantesca di una serie, con il fatto che il Pope sia un film in costume, con un cast enorme, con un regista che poteva chiedere tutto. Con Paolo è così, si va avanti senza provare, senza preparare, o bere o affogare. Sia Moretti che Sorrentino sono dei capiscuola, questo sviluppa un carattere irremovibile, non troppo dialogante. Partono da loro stessi, però mentre Paolo inizia dallo stile, Nanni fa il contrario, comincia da quello che vuole dire, dall’autobiografia».
Interpretare il cardinale Voiello ha influito sulla sua idea di fede?
«Con la religione ho sempre avuto un rapporto un po’ distratto, poi, con l’età, certe domande te le fai più spesso. La fede è qualcosa di veramente misterioso, da un lato non regge a un esame razionale, dall’altro la convinzione che qualcosa ci sovrasti ha un richiamo molto potente. Ce ne siamo accorti proprio in questi mesi di pandemia, è bastato un virus per mettere in ginocchio il mondo ed è difficile pensare che non ci sia dietro un disegno. Quando l’uomo cerca di diventare Dio di se stesso combina pasticci irreparabili, io questo sentimento lo avverto forte. Tutt’altra cosa, naturalmente, è la struttura religiosa e come la si interpreta. Ecco, tenere insieme la vita secolare e quella dello spirito mi sembra un affare molto complicato».
Il mondo dello spettacolo è stato duramente colpito dal Covid, si riprenderà?
«Mi piacerebbe che chi, tra di noi, se lo può permettere, decidesse di dare una percentuale dei propri guadagni a chi non ha nulla per andare avanti. Ci sono tante famiglie a rischio. Si potrebbe creare un fondo da gestire in modo oculato, per far sì che gli aiuti non arrivino a pioggia e non finiscano chissà dove. La scienza ha curato e salvato vite umane, ma che adesso sia il momento di tornare a ragionare di anime, di persone. La scienza salva gli uomini, ma non li cambia. Solo l’arte può farlo».
Stasera recita per il Napoli Teatro Festival. Che cos’è Napoli per lei?
«È tutto e, nello stesso tempo, è troppo. Le radici sono quelle, e, con l’età, te ne accorgi sempre più. Quando inizi a recitare, essere napoletano comporta uno stereotipo micidiale, rischi di entrare in un loculo da cui non esci più. Napoli è già un mondo e, proprio per questo, è come se non ti fosse data la possibilità di uscirne».