Sono trascorsi circa vent’anni dall’uscita di Vite senza fine, un piccolo e originale romanzo che Cesare Garboli premiò con il Viareggio. Me ne disinteressai allora, poi mi accadde di leggerlo nella recente riedizione per i tipi di Einaudi. Più o meno nello stesso periodo in cui pubblicava quel romanzo, Ernesto Franco assumeva nella casa editrice Einaudi l’incarico di direttore editoriale. Tra i due fatti c’erano alcune analogie esterne, ma anche, come vedremo, due ruoli che di solito si cerca di non sovrapporre: editor e scrittore.
Come farli coesistere senza che qualcuno insorga magari invocando il conflitto di interessi? In fondo la natura dei due mestieri può spingere chi li pratica a tentare di capire cosa si nasconda dall’altra parte della barricata. Ernesto Franco, oltretutto, non ha scritto molto: tre romanzi brevi, una raccolta di poesie e qualche rapida prefazione ai suoi amati scrittori ispano-americani.
Alla domanda se si senta punto nel vivo risponde con un «perché dovrei?». Non c’è nessuna confusione di ruoli: «Lo scrittore ci fa vivere in mondi e linguaggi possibili; l’editore ha un compito più semplice: quel mondo possibile dello scrittore lui vuole realizzarlo, anche se sa che è un desiderio smisurato. Poi fanno alcune cose insieme: incontrarsi, parlare, andare a cena, scegliere il titolo del libro o almeno discuterne.
Per il resto, l’editore prova a fare i conti con la fantasia degli altri. Conti psicologici, ma anche economici e culturali. Questo è in sintesi il suo mestiere e, in alcuni casi, la sua arte. Se poi scrivo, non lo faccio per avvalermi del privilegio di editor, ma perché so che una parte di me evoca quell’invisibile cui ogni autore aspira. Riuscirci è un altro discorso».
Accennavo a quei vent’anni trascorsi dal romanzo e dalla sua promozione lavorativa in Einaudi. Come rivede il se stesso di allora?
«È un periodo certo lungo, così lungo che potrebbe persino chiedermi che cosa ricordo davvero di quell’uomo laggiù, sul finire degli anni Novanta. Dal punto di vista personale mi sentivo su una specie di soglia, anzi nel bel mezzo di un cambiamento radicale. Stavo per abbandonare gli affetti che mi avevano riempito la giovinezza e stavo per avere ciò che ora ho già perduto, ma che tanto ha lasciato con me».
Si riferisce a sua moglie, scomparsa?
«Alludo alla sua presenza così intrecciata alla mia, nei tanti anni in cui anche lei lavorò all’Einaudi. In questi vent’anni sono cambiate le sfumature della mia solitudine: si sono arricchite e colmate di volti e nomi. Capisco meno cose, non solo perché le cose si sono complicate, ma anche perché non devo far finta di averle comprese; sono diventato più transigente, ma continuano a piacermi tutti i libri, tutti i film, tutte le donne, tutte le città. Credo che una tale apertura al mondo abbia a che fare con il mio mestiere. Con la curiosità che è la prima arma, anche se – come predicano i miei maestri – il mestiere di editore è fatto più dai no che dai sì».
Ma all’Einaudi come arrivò?
«Grazie a Vittorio Bo che allora era un giovanissimo direttore generale. Non conoscevo né Einaudi né Roberto Cerati, né Paolo Fossati, se non di fama.
Ricordo un colloquio terribile alla Buchmesse di Francoforte. Era l’ottobre del 1990. Fui convocato da Giulio Einaudi all’hotel Frankfurter Hof. Mi fece accomodare su un divanetto. Sembrava distratto, come se tutto il suo pensiero si fosse concentrato su un’idea del candidato preferito. Seguivo le espressioni del volto. Vedevo il movimento dei suoi muscoli espressivi: gli occhietti spalancati, la bocca che si storceva da un lato, le mani che sulle ginocchia ritmavano il tempo che mi restava e ricordo che mi venne da ridere. C’era qualcosa di surreale in quella scena da cui sarebbe dipesa la mia successiva vita».
Era un periodo difficile per la casa editrice.
«Arrivai in un momento in cui, nonostante il prestigio del passato e le personalità che ancora vi erano dentro, Einaudi stava attraversando un periodo di stasi».
Più che stasi c’era in corso una crisi finanziaria.
«Guardavo al fattore umano. Il ricambio generazionale era appena abbozzato. Tutte le antiche procedure, tutti i riti stavano ancora in piedi ma cominciavano a perdere efficacia. Mi trovavo, come altri, nella situazione di dover difendere una tradizione editoriale che aveva contribuito a svecchiare culturalmente il paese, e nello stesso tempo dovevo cercare nuove direzioni. E non tutti volevamo la stessa cosa. Mi fu chiesto di occuparmi della saggistica. Una delle prime telefonate che feci fu a Franco Moretti, che conoscevo e ammiravo da tempo e che consideravo come un fratello maggiore».
Gli telefonò per chiedergli cosa?
«Gli chiesi di pubblicare per noi. Mi sembrava un autore che rappresentava una svolta. Poi inventai "Einaudi contemporanea" da cui sono germinate le attuali "Vele". Intuivo che in quegli anni la scena culturale e politica, sia italiana che internazionale, stava cambiando. Occorreva non solo prenderne atto ma tradurre tutto questo nei libri della nostra contemporaneità».
C’era ancora Bobbio.
«Rappresentava tutto quello che la casa editrice era stata: un esempio magnifico di effigie culturale e politica. Senza rinunciarvi e senza tradire quella ispirazione bisognava guardare anche ad altro.
Ricordo che a quel tempo lessi alcuni articoli di Gustavo Zagrebelsky. Non era ancora un autore Einaudi. Gli telefonai per incontrarlo. Ci vedemmo al caffè Platti di Torino. Insegnava e non era ancora giudice della Corte costituzionale. Gli esposi la mia idea su un progetto editoriale che riguardava il diritto. Credo di averlo fatto in maniera maldestra. Mi guardò con compassione e disse: ora le spiego perché non ha capito niente. Poi, pazientemente, mi espose la sua idea sul diritto mite».
A proposito di mitezza, lei ha un carattere poco impetuoso. Abile a smussare i contrasti. Visto che è al vertice di un’azienda, quali altre doti si riconosce?
«Vado pazzo per l’intelligenza degli altri. Ma è più una passione che una dote. Ti confesso che in gioventù ho combattuto una lunga e non semplice battaglia contro l’invidia. E quando sono riuscito a vincere questo sentimento freddo e triste mi sono sentito più leggero e libero. Questo mi ha aiutato a gestire un’azienda, come tu dici, senza cedere completamente alla stronzaggine».
Te la sei rimproverata qualche volta?
«Forse l’ho più subita che cercata. Ci sono gli "stronzi" per vocazione e quelli che non sospettano di poterlo diventare. Ho fatto parte di questa seconda categoria.
Ma se riesci a capirlo puoi limitare i danni che procura al tuo ambiente».
Prima dell’Einaudi dov’eri?
«La passione per i libri c’è sempre stata. Quando ci penso mi torna in mente mio nonno che aveva la mania di raccogliere le dispense che si vendevano in edicola. Ricordo un Atlante e perfino una Divina commedia. Alla fine mi convocava per aiutarlo a metterle insieme, le rilegavamo e infine incollavamo la copertina. Mio nonno si chiamava Aldo. E anni dopo pensai al grande Aldo Manuzio, lo stampatore che a Venezia in pratica inventò l’editoria moderna. Quei primi tentativi di assemblaggio furono le mie "aldine"».
Tuo padre si interessava di libri?
«Mio padre era cardiologo. Capace di far funzionare qualsiasi cosa: da un cuore a un fornello elettrico. Mia madre, con meno spirito pratico, decideva per tutta la famiglia le grandi questioni della democrazia in Occidente. Penso che credessero con rassegnazione e una punta d’orgoglio che non avrei fatto altro nella vita che leggere libri».
Dove sei nato?
«A Genova, e lì ho fatto l’università, con professori come Nicolò Pasero, Pier Luigi Crovetto ed Edoardo Sanguineti. Quando mi si presentò l’occasione di lavorare in una casa editrice, chiesi consiglio ad Antonio Tabucchi che insegnava nel mio Istituto: tentare l’università o provare con l’editoria? Stavamo pranzando in una piccola osteria, nei vicoli del centro storico. Antonio non ebbe esitazioni: "Se non vuoi patire frustrazioni, non avrei dubbi". E io gli diedi retta. Arrivando alla Marietti».
Una casa editrice che pubblicò "La stella della redenzione" di Franz Rosenzweig e molti libri di argomento religioso.
«Non c’era niente di ortodosso nelle scelte di Antonio Balletto, che la dirigeva. Un formidabile "pretaccio", lo definì Gianni Vattimo. Da lui ho imparato molte cose inerenti al campo teologico. A quel tempo era consulente della Marietti Claudio Magris, che si occupava di letteratura mitteleuropea. Ho trascorso un bel periodo, fino a quando mi si presentò l’opportunità di passare alla Garzanti. Fu Ernesto Ferrero a chiamarmi».
Di Livio Garzanti di solito si sottolinea il carattere aspro. Tu come lo hai vissuto?
«Restai circa un anno in casa editrice. Ricordo che quel periodo coincise con il mio primo libro, Isolario, che era un inesausto omaggio a Italo Calvino. La tentazione di confrontarlo con Garzanti c’era. Ma alla fine la sola cosa che li univa era una certa forastica attitudine all’isolamento, in Calvino più apparente che reale. Quanto a Garzanti, era come la leggenda lo dipinge. Ma ero troppo giovane e troppo arrogante per non divertirmi come un pazzo alle sue uscite.
Chiedeva tradimenti a chiunque, in nome dell’unica fedeltà dovuta, quella sì, a se stesso. Me ne andai, come già ti ho detto, per passare all’Einaudi».
Alle spalle avevi anche una laurea in letteratura ispano-americana.
«È l’ultima letteratura che ha dovuto nominare cose nuove di un mondo nuovo. Che ha dovuto crearlo. Tra visionarietà e realismo, ma soprattutto ironia e umorismo».
Possono convivere visionarietà e realismo?
«La loro mistura crea "nostalgia", come la intendeva Cortázar: il desiderio di vivere contemporaneamente in due tempi e in due luoghi lontani».
Lo ha conosciuto?
«Lo vidi una sola volta, come pure incontrai Gabriel García Márquez a Guadalajara. Mentre gli stringevo la mano, mi ero preparato una frase ad effetto e me ne uscii goffamente con: "Maestro, i suoi libri mi hanno cambiato la vita". "Si figuri a me", rispose lui. E le cose ritornarono ironicamente al loro posto».
Hai tradotto molti scrittori di quelle terre. Alcuni sono argentini. Cosa rappresenta per te quel paese?
«Come molti liguri ho anch’io parenti e amici in Argentina. Sono disperatamente innamorato di Buenos Aires. Ho fatto la follia di tradurre testi di tanghi, come se fosse possibile. Scrivo da anni un libro su Buenos Aires, che è una città squisitamente mentale. Un turista vede quello che gli interessa in tre giorni; un altro, di Buenos Aires non riesce a finire di vedere quello che sa. È una strana poesia quella che ti trascina nelle profondità di quel mondo».
Hai anche scritto un libro di poesie, "Donna cometa". Un breve canto di amore che ha lasciato una lunga scia.
«Luminosa, come poche. Donna Cometa è Irene. Irene Babboni, mia moglie, che è morta tre anni fa. Mia sposa, più ancora che moglie, sposa ogni giorno. È stato detto che le poesie sono tutte di circostanza, concordo. L’amore è la Circostanza.
È una parola bellissima "circostanza": se accade qualcosa, questa si giustifica, si assolve e forse diventa nostra.
«E noi vi apparteniamo. Al di là del tempo e dello spazio. E se ne può scrivere, basta avere un rapporto libero sia con l’erotismo che con la letteratura.
È un altro modo per dare al "vuoto" un senso.
Dì pure una forma di pienezza. In fondo la poesia non ha le astuzie del romanzo. Trattiene una certa sofisticata ingenuità, ma è quasi tutto quello che le serve. Insieme al togliere continuamente. Un po’ come faceva Juan Rulfo con i suoi brevi romanzi. Lo scrittore messicano tolse tutto il folklore dal romanzo latinoamericano. Anche nell’amore il folklore va messo tra parentesi. Va asciugato, soprattutto dalle lacrime».