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 2020  luglio 04 Sabato calendario

Intervista a Sandro Veronesi

«Non mi sento lo scrittore che ha vinto due volte il Premio Strega. Mi sento uno scrittore che ha avuto due romanzi tanto fortunati da vincere entrambi, a quattordici anni di distanza l’uno dall’altro, lo stesso premio. Anche perché, a insistere sul tema del valore assoluto dello "scrittore premiato due volte", si va fuori strada, e ci si schianta. Elsa Morante, per dire, ha vinto una volta sola; Gadda e Calvino mai».
Sandro Veronesi risponde tra una diretta radio e un appuntamento pubblico: sono le ore vorticose che seguono l’assegnazione del più importante premio letterario italiano. È tornato in gara a quattordici anni di distanza dall’ultima volta, quando – era il 2006 – vinse con Caos calmo.
E adesso Il Colibrì, un romanzo vitalissimo su una esistenza in cui la tabella di marcia del dolore accelera bruscamente, ha staccato di netto gli altri cinque finalisti. Rendendo il suo autore il secondo nella storia del premio, dopo Paolo Volponi, a vincere due volte.
Ha mai avuto, una volta in gara, qualche ripensamento?
«No, benché ci fossero anche diversi amici che mi avevano sconsigliato, o che non erano d’accordo su questo mio ritorno. Ma quando un romanzo desta fin dall’uscita una reazione emotiva così speciale, e qualcuno, ancora in assenza di altri candidati ufficiali, ti chiede: "Perché non rifai lo Strega?", è normale che ci pensi. Male che vada, mi sono detto, il romanzo arriva vivo al 2 luglio, e non è poco in un mercato che brucia tutto in fretta.
Comunque, non sento di avere violato alcun codice».
La polemica è nella natura del premio più importante e più discusso, ma sulla sua patente di vincitore annunciato si è avuto da ridire.
«Vincitore annunciato finché ero solo. Poi è entrato in gioco Gianrico Carofiglio con La misura del tempo, pubblicato da Einaudi, che fa parte di uno dei più grandi gruppi editoriali europei. A quel punto, i vincitori annunciati sono diventati due, e ciascuno con il suo svantaggio: io ero quello della seconda volta, lui il candidato di un gruppo con tre candidati. Ma obiettivamente La Nave di Teseo, che ha come quota di mercato l’1,5%, è un battello in confronto alla corazzata. Semmai sorprende, come ha detto ieri Elisabetta Sgarbi, che in meno di cinque anni una casa editrice indipendente fondata da un gruppo di amici (c’ero anch’io) sia diventata così centrale».
La serata di premiazione, necessariamente sottotono rispetto a quella degli anni scorsi, l’ha immalinconita?
«In circostanze simili, per come sono fatto, se c’è meno gente mi sento più a mio agio. La sera della vittoria con Caos calmo fu più animata: fui quasi portato in trionfo, con la maglietta dell’Accademia degli Scrausi, il gruppo di linguisti che mi ha sostenuto quest’anno come allora, indossata sopra la camicia. Ma per il mio temperamento british ero quasi imbarazzato».
Sul calore e sulla buona accoglienza che "Il Colibrì" ha rapidamente raccolto che idea si è fatto?
«Che era imprevedibile. Non c’è stata per altri miei romanzi, e sono su piazza da più di trent’anni. Molti lettori mi hanno detto di avere pianto: ecco, credo che quando un romanzo smuove emozioni forti, quando porta i sentimenti di chi legge all’estremo, batte una strada speciale. Tra critici e addetti ai lavori, invece, credo sia stata apprezzata la mia fede manifesta e senza cedimenti nel romanzo. Una fede un po’ all’americana, che non ignora l’eterno dibattito sull’esaurimento delle forme ma in ogni caso non lo trascina dentro al racconto. Il Colibrì non è memorialistica, non è metaletteratura, non è costruito intorno a un nucleo saggistico. È proprio un romanzo-romanzo, che forse è riuscito anche a rinfrancare qualche collega diventato più scettico».
Romanzo borghese, si dice. Nel 2020 l’aggettivo ha ancora senso?
«Ha senso perché è indiscutibile il legame della forma romanzo con l’avvento della borghesia sulla scena europea del diciannovesimo secolo.
Prima, era impensabile che protagonista di un libro fosse una signora di campagna che si perde nella grande città. Come nella realtà sociale la borghesia ha ridotto lo spazio dell’aristocrazia, così nella narrazione gli aristocratici e i militari sono stati via via sostituiti da medici, impiegati, giornalisti, studenti. I romanzi novecenteschi hanno registrato la lunga crisi della borghesia frammentando la narrazione, rendendo l’io pulviscolare. Ma credo che il racconto non sia finito, e che una mentalità "borghese" non sia necessariamente un difetto».
A proposito di frammenti, la struttura del Colibrì è fatta di segmenti narrativi, con un cursore temporale che si muove di continuo avanti e indietro. Quanto conta questa operazione di montaggio?
«Non parlerei di montaggio. Il romanzo è stato scritto così come il lettore lo legge. Ma d’altra parte, quando due persone si conoscono come si raccontano l’una all’altra?
Non certo partendo dalla data di nascita. Non si parte dall’inizio, si parte da una scena. Non è montaggio: è racconto».
Il protagonista del romanzo resiste a lutti e avversità con una capacità di tenuta emotiva che forse è la sua principale risorsa. Un lettore che lo legga oggi, condizionato dalla stagione che stiamo attraversando, può trovarci qualcosa in più?
«Quando un romanzo ti piace, puoi trovarci quello che ti pare, ciò che in quel momento ti serve. Il problema è quando non ti piace. Di sicuro, se un lettore cerca nelle pagine del Colibrì una spinta a resistere e a reagire al dolore, la trova, perché mentre scrivevo ero io stesso a cercarla. In questo senso, opponendomi alla dittatura del tempo lineare, potevo dire al lettore, da subito, che sì, ci sono i lutti, le tragedie, le sconfitte, ma c’è anche un dopo. E il mio personaggio è ancora lì, ce la fa, ce l’ha fatta».
Passata la tempesta felice di queste settimane, che farà?
«Il contrario di quello che ho fatto dopo Caos calmo. Allora mi fermai, anche per una ragione abbastanza triste: i miei genitori stavano morendo, e volevano morire in casa.
Potevo permettermi di non lavorare, grazie al premio e al successo del libro, e mi fermai accanto a loro.
Anziché battere il ferro finché era caldo, lo lasciai raffreddare. Forse troppo, perché poi riprendere a scrivere fu molto faticoso. Stavolta, faccio l’opposto: voglio riprendere a scrivere, subito. Voglio continuare, non voglio staccarmi dal foglio».