La Stampa, 3 luglio 2020
Come vivono i manager della strage della Thyssen
La signora Espenhahn compare sulla porta di casa con due bassotti perfettamente pettinati sotto braccio, uno per parte. «Mio marito non vuole parlare. Ci hanno detto di fare così. E noi, in tutti questi anni, abbiamo sempre obbedito». Diluvia sulla villa dell’ex amministratore delegato della ThyssenKrupp in Italia. Tegole nere, facciata bianca. È una villetta elettrificata in ogni sua chiusura. Harald Espenhahn vive nelle piccola città di Bottrop, vicino al raccordo autostradale e di fronte allo Stadtpark, dove va a correre ogni domenica mattina. Uno di questi giorni, e non oltre il 15 luglio, lui e il responsabile finanziario del ramo italiano dell’acciaieria, Gerald Priegnitz, entreranno per la prima volta in carcere dopo la condanna per il rogo nello stabilimento di Torino del 6 dicembre 2007 in cui persero la vita sette operai.
La pena da scontare
Uno dei due manager si è presentato in carcere ieri sera. Ma la procura di Essen non ha specificato il nome. Inizia la detenzione. Ci sono voluti 13 anni, 3 gradi di giudizio in Italia e 4 anni di ricorsi in Germania, per rendere esecutiva la pena. Quando provi a spiegare alla signora Espenhahn che forse non è stata una buona regola di obbedienza non aver mai pronunciato una sola parola per le vittime e per il loro parenti, lei mette a terra il cane e sbatte la porta. Nel giro di 5 minuti si presenta un tizio palestrato, con la coda di cavallo e la scritta «Winter Security» sulla felpa nera. Dice di sloggiare. Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz devono scontare cinque anni di carcere per omicidio colposo, il massimo per questo tipo di reato in Germania. Li sconteranno in regime di «offener Vollzug», cioè in semilibertà. Continuando a lavorare come manager ai vertici del colosso dell’acciaio. Ora sono al lavoro in un ramo di ThyssenKrupp Elevator a Essen. Hanno ottenuto la semilibertà proprio perché hanno sempre conservato quel ruolo. «Se la persona condannata ha un lavoro regolare e se non vi è alcun rischio imminente di commettere nuovi crimini, può ottenere la semilibertà», dice la procuratrice generale Annette Milk. «L’idea alla base di queste disposizioni è che la reintegrazione nella società ha maggiori possibilità se le persone condannate non perdono il lavoro». È anche un modo per contrastare il sovraffollamento nelle carceri del distretto fra Dortmund e Düsseldorf.
Il tempo passato
Il 13 maggio 2016 Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz avevano atteso la sentenza della Cassazione in Germania, ed è qui che hanno chiesto di scontare la pena. Ma mentre per i quattro dirigenti italiani condannati si sono aperte subito le porte del carcere, i due manager tedeschi sono riusciti a prendere tempo. Come hanno fatto? «Avevamo bisogno di più documenti di quelli inviati dall’Italia, quindi è stata necessaria una corrispondenza ufficiale», spiega la procuratrice Milk. «Poi il tribunale distrettuale di Essen ha dovuto ascoltare i condannati e decidere nel merito. Successivamente, i condannati hanno fatto appello all’Alta corte regionale di Hamm, che ha deciso nel febbraio 2020. Infine, anche la procedura per approvare la loro domanda di mantenere il lavoro durante la carcerazione ha richiesto tempo. Dovevamo trovare una struttura abbastanza vicina per consentire il pendolarismo quotidiano». Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz lavoreranno di giorno, staranno in carcere di notte e potranno tornare a casa durante i weekend. «In ogni caso non dall’inizio della detenzione e non durante tutti i fine settimana» precisa la procuratrice Milk.
Il silenzio dopo la tragedia
Quello che è stata la notte del 6 dicembre 2007 a Torino ormai è agli atti. È stata la dismissione di un’acciaieria con dentro i suoi operai. ThyssenKrupp voleva chiudere l’impianto senza smettere di produrre fino all’ultimo. I soldi stanziati per le manutenzioni non furono spesi. E quando sulla linea 5 scoppiò l’ennesimo incendio, gli estintori erano scarichi, il telefono non funzionava bene, il tasto per il blocco della linea era inceppato. Gli operai del turno di notte cercarono di spegnere le fiamme da soli, ma un tubo dell’impianto idraulico esplose e tutti furono investiti da una nuvola incandescente di olio ad alta pressione. In questi quattro anni di attesa Cristina Giordano, una giornalista freelance che lavora per Radio Colonia, ha cercato di capire quello che stava accadendo in Germania. Ha trovato un solo sindacalista dell’acciaieria disposto a parlare con garanzia di anonimato: «All’interno degli stabilimenti tedeschi di ThyssenKrupp nessuna ha mai speso una parola sulla tragedia di Torino». Silenzio e rimozione.
La tranquillità dei manager
Anche adesso, davanti al quartiere generale di Essen è difficile trovare qualcuno disposto a fermarsi. «Tutto quello che so lo so dai giornali, nessuno hai mai parlato dell’incendio» dice un impiegato dell’ufficio amministrativo. Le villette di Espenhahn e Priegnitz, una a Bottrop, l’altra a Essen, distano 20 chilometri e si assomigliano in tutto. Campi da padel, prati curati dai giardinieri, due Bmw parcheggiate nei garage interni. Il vicino di casa di Gerald Priegnitz spiega la scelta dell’amico: «Rilasciare dichiarazioni sarebbe sembrata un’ammissione di colpevolezza e lui non si sente colpevole. Era nella finanza. Cosa poteva saperne di quegli estintori?». Ancora, 13 anni dopo, non una parola per Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone. Della settima vittima restano le grida registrate sullo sfondo di una telefonata ai soccorritori: «Non voglio morire!». L’operaio Giuseppe De Masi fu dichiarato morto dopo 45 giorni di agonia nel reparto grandi ustionati del Cto di Torino. Aveva 26 anni.