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 2020  luglio 03 Venerdì calendario

I centri per l’impiego che costano 1,5 miliardi

L’Italia si presenta a mani nude di fronte allo tsunami occupazionale che sta montando con la crisi Covid. Non solo perché, specie per giovani e donne ma anche per i cinquantenni, sarà difficile trovare un altro posto dopo averlo perso in questi mesi drammatici. Ma perché la rete che il Paese doveva stendere, rafforzando i suoi 552 centri per l’impiego, è bucata. La riforma non esiste, neppure sulla carta. Ci sono solo i soldi, tantissimi. Uno stanziamento senza precedenti per le politiche del lavoro in Italia: oltre un miliardo per gli investimenti strutturali dei centri e mezzo miliardo all’anno per assumere via concorso 11.600 nuovi addetti a tempo indeterminato da sommare agli 8 mila esistenti. Senza contare i 2.850 navigator in servizio fino al 30 aprile 2021 e il cui costo complessivo è pari a 260 milioni.
Ebbene, nonostante lo sforzo finanziario titanico – l’Italia nel 2018 spendeva per le politiche attive appena 382 milioni contro 14,6 miliardi della Germania, 5 della Francia e 1,8 della Spagna (dati Eurostat) la riforma dei centri per l’impiego non si è mossa dal giorno in cui il governo M5S-Lega ha deciso, con la legge di bilancio per il 2019, di far piovere sulle Regioni, titolari in materia di politiche del lavoro, così tante risorse. Il “piano straordinario triennale di rafforzamento” dell’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio (M5S) – scritto dopo la conversione in legge del decreto istitutivo del reddito di cittadinanza, approvato il 17 aprile 2019 in Conferenza Stato-Regioni e infine varato il 28 giugno 2019 – era così generico che l’attuale ministra Nunzia Catalfo (M5S) ha deciso di correre ai ripari.
Nel nuovo decreto ministeriale che Repubblica ha potuto visionare – approvato in Conferenza Stato Regioni lo scorso 7 maggio e proprio in questi giorni arrivato in Corte dei Conti per la registrazione finale – il ministero mette i primi paletti alle Regioni nella spesa di quel miliardo. Chiedendo a tutte un “piano attuativo regionale di potenziamento dei centri per l’impiego” senza il quale – e senza gli “scontrini”, ovvero la presentazione di adeguata documentazione di spesa o impegno di spesa – i soldi non saranno erogati.
Si scopre così che nell’ultimo anno le Regioni si sono mosse in autogestione, coordinandosi sul da farsi, visto che il piano Di Maio si limitava a ripartire le risorse e i nuovi addetti da assumere tra le Regioni (in tabelle allegate). Ma poi si dilungava sui navigator – assistenti tecnici degli operatori dei centri – e sui “big, smart e fast data”. Poco o nulla diceva sul come spendere il miliardo, limitandosi a ripetere la legge – “potenziamento anche infrastrutturale” – senza nemmeno obbligare le Regioni a stilare un piano. Cosa significa quell’"anche”? Si possono spendere i soldi anche per gli affitti oltre che per comprare nuove sedi o ristrutturare le esistenti? E anche per tavoli, sedie, computer, portatili, software? O per assumere collaboratori? Nell’incertezza poco o nulla si è mosso in questi dodici mesi.Com’è possibile monitorare una spesa così ingente, in grado di cambiare il volto alle politiche attive del lavoro, riportando l’Italia ai livelli dei migliori paesi europei, senza riferimenti precisi, senza un quadro nazionale e senza poi pretendere un piano territoriale in armonia con quel quadro?
Va detto che pur di assicurarsi i soldi – per ora sono arrivati solo 234 milioni del miliardo disponibile – le Regioni hanno più o meno tutte stilano piani locali con regole fai da te, nel vuoto legislativo e politico. Solo a quel punto – e siamo all’inizio di quest’anno – la ministra Catalfo ha capito di dover rendere il piano regionale obbligatorio e dai contorni definiti, inseriti nel nuovo decreto ministeriale: non più dell’1,5% va speso in comunicazione, non oltre il 5% in formazione degli operatori, istituzione di osservatori regionali del mercato del lavoro in grado di comunicare con quello nazionale in via di costituzione, sistemi informativi dialoganti con quello centrale (che però stenta), immobili solo da acquistare o ristrutturare (sempre che i Comuni non cedano locali idonei gratis alle Regioni, obbligati da una legge del 1987). Senza paletti si rischiava la babele e uno sbilanciamento tutto verso la spesa corrente (affitti o stipendi) anziché strutturale in investimenti.
Non che i paletti siano di per sé sufficienti a diradare il fumo. Difficile dire cosa ne sarà dei centri per l’impiego a “riforma” conclusa. Gli addetti passeranno da 8 mila a 20 mila. Qualche sede sarà ampliata e migliorata. Più computer. Ma la ricerca del lavoro passerà dai centri? I giovani e meno giovani troveranno così un posto? I dati del primo e unico monitoraggio sui centri fatto da Anpal, l’Agenzia per le politiche attive – guidata allora da Maurizio Del Conte e oggi da Mimmo Parisi e controllata dal ministero del Lavoro – dicono che nel 2018 su 2 milioni di lavoratori presi in carico dai centri solo 37 mila avevano trovato lavoro. Non molto meglio di quanto oggi (non) fanno i navigator.