La Stampa, 2 luglio 2020
La strage degli italiani deportati da Churchill
Oggi sono passati 80 anni. È il 2 luglio 1940 quando l’Arandora Star, lussuosa nave da crociera di prima classe requisita e convertita per usi militari dalla Marina inglese, viene silurata da un sommergibile tedesco al largo delle coste scozzesi, portando sul fondo dell’Atlantico 446 civili italiani, colpevoli solo del fatto di essere italiani. Li stavano trasferendo nei campi di internamento in Canada, catalogati come personaggi pericolosi, stranieri e quindi nemici.
È vero, tecnicamente erano dei nemici. Perché l’Italia di Mussolini aveva appena dichiarato guerra alla Gran Bretagna. C’erano anche dei fascisti, quindi nemici veri. Ma molti di loro erano ebrei e antifascisti che dall’Italia fascista erano scappati proprio per cercare rifugio a Londra. Non bastò a salvarli. La reazione di Churchill è brutale. «Collar the lot», è l’ordine: acciuffateli tutti. Letteralmente: prendeteli per la collottola, come i ladruncoli. L’ordine viene eseguito senza fare molti distinguo. Buoni e cattivi, non importa. C’è gente che ha combattuto al fianco degli inglesi nella Grande guerra. Non importa, arrestateli. Sono gente pericolosa, noi siamo inglesi, loro sono qualcosa di diverso da noi. La nazionalità prevale su tutto il resto.
Il 10 giugno, giorno della dichiarazione di guerra di Mussolini, si scatena una caccia all’italiano. Tutti i maschi tra i 17 e i 70 anni, per ordine di Churchill, devono finire dietro il filo spinato dei campi di internamento. Li rastrellano nelle case, nei negozi, nei ristoranti dove lavorano. Ne prendono migliaia, a Londra, in Galles, in Scozia, che già allora erano le comunità più numerose. Li conoscono, sanno dove stanno, sono cresciuti con gli inglesi. Spesso ad arrestarli sono i poliziotti amici, che a volte piangono, portandoli via. Sono andati nelle stesse scuole, frequentano le stesse chiese.
Più che una storia di guerra, una storia di immigrazione e pregiudizio. Si arriva agli arresti dopo una campagna di odio contro il diverso. Il terreno è preparato dai giornali xenofobi che parlano di italiani dagli occhi di scarafaggi, dei «Mario» che vengono a rubare il lavoro e le donne ai patrioti britannici. La rabbia nella notte della «pugnalata alla schiena» dell’ex amico Mussolini si scatena. A Little Italy (sì, anche a Londra c’è una Little Italy, tra Farringdon e Clerkenwell e Soho) le vetrine dei ristoranti e degli alimentari vengono sfasciate. Odio e botte. Nelle retate finiscono un sacco di innocenti. Gente che odia Mussolini forse più degli inglesi. Non importa. Sono italiani e quindi fascisti.
Immigrazione e pregiudizio. Sarà per questo che adesso se ne ritorna a parlare. Anche la Bbc, che non ha mai dato molto spazio a episodi come questo, manderà in onda una pièce teatrale ispirata agli italiani dell’Arandora Star. Dopo la Brexit, storie dimenticate o volutamente messe sotto il tappeto tornano di attualità. Diventano lo spunto per una riflessione e una sorta di autocoscienza collettiva. Il rapporto con gli immigrati, in quella che fu la patria del multiculturalismo, va ripensato. Gli italiani dell’Arandora diventano un simbolo.
Solo una decina di corpi vengono identificati. Gli altri, a centinaia, li riporta il mare sulle coste dell’Irlanda e della Scozia. Cadaveri senza arti, senza occhi, senza nome. Gli abitanti li seppelliscono come possono, mossi dalla pietas che rende gli uomini uguali di fronte alla morte. Sanno che sono italiani perché non indossano la divisa, sono civili innocenti.
C’è tanto di quello che accade oggi nel Mediterraneo, in questa storia. Anche gli italiani dell’Arandora Star erano scappati dai paesi più poveri d’Italia in cerca di una vita migliore. Primo tra tutti da Bardi, sull’Appennino parmense, che ha il maggior numero di morti sulla nave e li ricorda in una cappella che è diventata la Spoon River della tragedia. I loro padri erano arrivati a piedi. Alcuni erano morti di stenti attraversando l’Europa in cerca di fortuna. Altri erano sbarcati ai Docks, credendo di essere arrivati nella «Merica». Ma erano a Londra, dove oggi, a 80 anni di distanza, la Brexit pone gli stessi interrogativi.