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 2020  luglio 02 Giovedì calendario

Una vecchia intervista a Leonard Cohen

Ci sono pochi dubbi sul fatto che Leonard Cohen abbia scritto alcuni dei versi più belli che siano mai stati messi in forma di canzone. Un mondo elevato, popolato da un’umanità dolente in cerca di riscatto, donne e uomini toccati dalla grazia, in un misto di sacro e profano, eros e misticismo, esattamente com’erano le sue Sisters of mercy, sorelle di misericordia, in un’ambigua sovrapposizione tra l’immagine di due ragazze molto espansive e quella del pietoso conforto monacale, così come il capolavoro Hallelujah che Jeff Buckley trasformò in un’estasi di vertigine sensuale. O come la “sorella” Janis Joplin che raccontò con tutti gli scabrosi dettagli un incontro tra poeti in un albergo di New York chiamato Chelsea, dove gli artisti amavano incontrarsi (“we’re ugly but we have the music”, siamo orribili ma abbiamo dalla nostra la musica, gli diceva Janis). Il 16 giugno del 1988 Cohen era a Roma per un concerto al Teatro Olimpico. Nel pomeriggio io e Carlo Massarini lo raggiungemmo nel bellissimo parco di un hotel romano.
Ricordo uno sguardo penetrante ed empatico e il calore umano di un amabile intellettuale col volto scavato dal vento delle isole greche, come un ebreo errante condannato a raccogliere e raccontare storie, senza mai potersi fermare.
Da dove arriva?
«Difficile a dirsi. Quando si sta a lungo in tour si sviluppa una sorta di amnesia, abbiamo fatto circa cinquanta concerti e prima ancora ho portato a termine un tour promozionale, così sono stato on the road per sei o sette mesi. Per i miei standard è davvero tanto tempo ma ho dovuto fare qualcosa di molto radicale, altrimenti non sarei stato capace di rimanere nel mercato. Ho perso progressivamente pubblico nel corso degli anni, e a essere sincero non me ne importava poi molto ma ci tengo a fare il mio lavoro e a un certo punto mi sono reso conto che stavo superando il livelo di guardia. Anche la discografia mi stava mollando. Ho capito che se volevo rimanere in questo mondo, in senso professionale, dovevo fare qualcosa. E così ora mi tocca lavorare molto».
Ha mai pensato di non aver avuto la giusta considerazione per quello che ha fatto?
«Pensare che ognuno abbia esattamente quello che si merita è parte integrante della mia personale filosofia. Naturalmente vorrei essere più ricco, più famoso e più universalmente amato».
Quale delle tre?
«Tutte, ma io sono comunque soddisfatto, sono stato capace di vivere bene, non mi è riuscito di vivere in modo stravagante, ma di vivere bene sì, esattamente come volevo, grazie anche ai buoni rapporti con la mia casa discografica. Non ho fatto abbastanza soldi perché siano profondamente interessati a me, ma non ho mai perso soldi, così continuano a pubblicare i miei dischi».
Non è strano invecchiare all’interno della cultura rock?
«Mi sono sempre sentito un poco più vecchio della gente che mi stava intorno. Di fatto lo ero quando sono entrato nella musica, anche perché prima di allora sono stato uno scrittore per quindici anni. Quindi non ho avuto il gran fardello di dover essere al passo con la mia generazione. Ognuno arriva alla sua personale comprensione di cosa significhi invecchiare. Il mio amico Irving Layton, un grande poeta canadese, disse: “l’inevitabile abiezione dell’invecchiare”, ma io credo che dentro questo ci sia qualcosa di molto interessante».
Non sente il bisogno di aggiungere alla sua musica un suono più contemporaneo?
«Ho sempre pensato di lavorare in una zona remota della musica. Indipendentemente dal fatto che la gente pensi che sia un vecchio hippy, credo che un esame giudizioso del mio lavoro porterebbe a dire che è sempre stato sperimentale. Sono stato etichettato come un artista degli anni Sessanta e molti hanno smesso di sentire quello che è venuto dopo, ma se ascolti un album come New Skin for the Old Ceremony puoi trovare dentro elementi molto contemporanei. In realtà uso i sintetizzatori da molto tempo, solo che quando ho inciso il mio primo disco non erano ancora stati inventati. Non ho problemi a usare la tecnologia a disposizione. Il sintetizzatore che ho usato nelle canzoni d’amore del mio ultimo disco, I’m Your Man , è un giocattolo, semplicemente uno di quei programmi con cui tu premi un tasto e… beh lo sapete come funzionano».
Nel suo primo album c’era una canzone intitolata “Master song”. Chi era il maestro?
«Forse dipende dal fatto che ho un background religioso, ma ho sempre pensato che ci siano individui che, grazie al loro impegno e capacità, abbiano penetrato più di altri la realtà. Non è un libro, non è una teoria, è qualcosa che si è incarnato in alcuni, e questi uomini possono essere maestri, potrebbe essere tuo zio, può essere chiunque, ma l’esperienza che hanno gli ha dato qualche informazione in più. Ho incontrato persone che ne sapevano molto più di me e sono stato molto vicino ad alcuni di loro, semplicemente gente che ha incarnato la propria saggezza».
Sono stati d’aiuto?
«Diciamo che sono stati cruciali, mi hanno fornito gli strumenti per sopravvivere».
Sente di avere sempre qualcosa d’importante da dire ai giovani?
«Credo che ci sia sempre una stanza a disposizione di qualcuno che racconti una storia nel modo più accurato e semplice. Con un minimo di effetti. Credo che ci sia sempre posto per uno scrittore o un cantante del genere».
C’è chi usa la musica come esperienza interiore, altri come terapia, e tirano fuori cose che altri non riescono a tirare fuori. All’estremo opposto molti lo fanno solo per soddisfare il proprio ego, per avere ragazze, macchine e case di lusso. Vent’anni dopo “Suzanne”, “Sister of mercy” e “Bird on the wire”, cos’è cambiato nella sua relazione con la musica?
«Le donne sono sempre state molto connesse a tutto questo, dal più prosaico punto di vista all’idea più elevata, siamo coinvolti a ogni livello della nostra vita. Questo inizialmente per la peggiore ragione possibile: volevo essere un bell’uomo che attraeva le donne con belle canzoni, ma abbastanza in alto da pensare di celebrare la femminilità o solo di partecipare alla divina celebrazione dell’intero straordinario miracolo delle differenze tra uomini e donne, il riprodursi, il procreare, il sesso, le misteriose connesioni dei sessi che ci assorbono così profondamente. Quindi le donne giocano un grande ruolo, ma accanto a questo, c’è la nozione del lavoro ed è molto importante. Fin da quando ero piccolo ho avuto ben chiara l’idea di localizzare il rispetto di sé nel lavoro, e anche che puoi scoprire te stesso nel lavoro, che il lavoro è preghiera, che è oltre la terapia, perché la terapia indica che c’è una malattia che devi curare. Ma il lavoro non ha bisogno di motivazioni, è la condizione naturale, e se vuoi essere un uomo naturale… lavori».
Alcuni artisti pensano che la musica possa cambiare il mondo. Altri che le canzoni debbano solo essere belle e basta, ma non necessarie. Cosa ne pensa?
«Penso che come per tutte le altre cose valga l’intero spettro. A un certo livello le canzoni possono essere utili, per aiutarti a pulire casa, oppure ad approcciare la donna che vuoi sposare, oppure ancora per risvegliare le masse, non importa per quale scopo politico, buono o cattivo. Sappiamo che le canzoni sono coinvolte nelle faccende di cuore, e non hanno un valore astratto. I nazisti avevano belle canzoni, i comunisti hanno belle canzoni, i francescani hanno belle canzoni, gli arabi hanno belle canzoni, e così gli ebrei, gli inglesi e gli irlandesi, e la cosa bella è che è come se ci fosse un pallone che chiunque può spingere dove vuole. Così non deve per forza avere un significato assoluto di per sé, ma può cambiare il mondo per te. Chiunque sia così arrogante e violento da voler cambiare il mondo, può usare una canzone per farlo. Tutte le religioni hanno usato canzoni. Ma vediamola in modo diverso. Io credo che ogni volta che il cuore di qualcuno si apre per un momento, il mondo ha una seconda occasione, e le canzoni fanno questo, probabilmente molto meglio di altre cose. Parlo soprattutto in termini di canzoni popolari che puoi ascoltare o buttare via e dimenticare, oppure no. Ma qualche volta la canzone può aprire il tuo cuore quando nemmeno ti sei accorto che è chiuso e ben serrato. E questo è quello che amo nelle canzoni».
C’è stato un celebre e riuscitissimo abbinamento tra le sue canzoni e il cinema, nel film “I compari” di Robert Altman. Come ha vissuto quell’esperienza?
«È stato bello. Non ho grandi ambizioni fuori delle canzoni e dei libri. Non ho mai voluto essere una star del cinema, e neanche un regista, ho un’idea molto limitata di quello che posso fare, e molte di queste cose posso tranquillamente farle da solo, le altre attività comportano gruppi di gente con cui rapportarsi. Nel 1984 ho realizzato un corto di mezz’ora che vinse la rosa d’oro a Montreux, si chiamava IAm a Hotel, un piccolo film, e poi naturalmente ho realizzato dei video per le canzoni che sono molto molto buoni, eleganti, credo il meglio che si possa fare, ma continuo a pensare che le cose devo prima farle da solo, in termini di quello che è una voce o di che cos’è la musica. Non mi sento di cercare di stare al passo con i ragazzi. Casomai trovo molto gratificante che molti ragazzi mi indichino come un’influenza, da Echo & Bunnymen a Suzanne Vega, questo mi permette di non sentirmi come un vecchio che arranca zoppicando dietro una parata».
Ascoltandola parlare si ha come l’impressione che se qualcuno ora suonasse una chitarra, quello che dice diventerebbe una canzone…
«Beh, di sicuro il mio stile di scrittura è molto connesso al mio modo di parlare. Per me poetico significa accurato. Non mi interessa la poesia in se stessa, come una fucina di linguaggio. Per me la poesia è il linguaggio più preciso per esprimere qualcosa».