la Repubblica, 2 luglio 2020
La faida che divide la famiglia Assad
I sogni di gloria e di potere assoluto ma anche i tradimenti e le vendette che hanno segnato i rapporti tra il presidente siriano Bashar al Assad e suo cugino Rami Makhlouf non stonerebbero in una mousalsal, una di quelle soap opera arabe tanto seguite durante il ramadan. L’epilogo della Dynasty siriana o della Dallas a Damasco, come i rotocalchi locali hanno battezzato il tormentato legame tra i due, non è ancora stato scritto. Ma il cinquantenne Makhlouf, l’uomo d’affari che fino a pochi anni fa controllava il 60% dell’economia del Paese e il cui patrimonio accumulato in pochi anni è stato valutato 5 miliardi di dollari, si trova oggi agli arresti domiciliari, con tutti i suoi beni congelati.
Eppure, quando nel 2007 vinse il referendum per un secondo mandato, fu proprio il presidente Assad ad offrirgli, tramite una gara d’appalto truccata, l’azienda di telefonia Syriatel con cui Makhlouf ha cominciato ad accumulare la sua fortuna. Al contrario di suo padre Afez al Assad che regnava incutendo terrore, Bashar, più flemmatico e con una laurea in oftalmologia conseguita in un’università inglese, decide di farsi amare, soprattutto dal suo clan. Il presidente non ha però calcolato l’insaziabile avidità del cugino che dopo aver strappato il monopolio delle telecomunicazioni, si lancia nell’immobiliare, nel petrolio, nella finanza. «Abbiamo i soldi e adesso vogliamo il potere», dice spesso ai suoi collaboratori. E a un ministro che gli suggerisce di tenere a freno le sue ambizioni risponde: «Voglio tutta la torta per me».
Fatto sta che diventa in fretta l’uomo più ricco del Paese, autoproclamandosi viceré della Siria. Ma la sua spregiudicatezza non passa inosservata e, nel 2008, in un dispaccio del Dipartimento di Stato americano, Makhlouf è descritto come «l’incarnazione della corruzione in Siria». Poco importa. Protetto dal presidente con cui è cresciuto, il miliardario sbaraglia qualsiasi rivale in affari. In cambio, versa parte dei suoi ricchi guadagni nelle casse dello Stato e, più discretamente, nel salvadanaio privato di Bashar e di sua moglie Asma, sunnita e figlia di un noto cardiologo, che il presidente ha conosciuto a Londra quando lavorava come analista finanziaria.
Nel 2011 scoppia la guerra e Makhlouf si schiera con il regime di Damasco elargendo grosse donazioni all’esercito e creando, tramite un’associazione caritevole, una miriade di milizie lealiste. Sarà lui a spingere il presidente ad adoperare la repressione più impietosa contro le prime rivolte a Deraa, Homs e nella periferia di Damasco. E saranno i loro rispettivi fratelli, Hafez Makhlouf e Maher al Assad, a guidare l’esercito contro le piazze, impugnando i mitra e sparando loro stessi sui manifestanti quando i soldati semplici rifiutavano di farlo. Centrando di preferenza i bambini per fiaccare il morale degli adulti.
Verso la metà del 2019 cominciano ad accumularsi le prime nuvole sull’alleanza tra i cugini, che in breve si tramutano in parenti serpenti. Grazie al sostegno della Russia, Assad ha riconquistato buona parte del Paese e vuole adesso fare pulizia all’interno della ristretta cerchia del potere. E poi, ha bisogno di dollari. Lo scorso aprile, impoverito da nove anni di guerra civile e strangolato dalle sanzioni internazionali, il governo esige da Syriatel l’equivalente di 180 milioni di euro di tasse arretrate. Gli averi di Makhlouf sono bloccati, una quarantina di suoi dipendenti viene arrestata, le sue guardie del corpo sono disarmate. Gli è anche imposto di lasciare ad altri le redini della compagnia. Lui potrebbe tentare la fuga all’estero: a Mosca, per esempio, dove suo padre ha trattato nel 2015 l’invio di armi russe, e dove con i suoi fratelli ha acquistato case per un valore di 40 milioni di euro; oppure a Montecarlo, dove ha piazzato chissà quali fantasmagorici gruzzoli nelle banche del principato. Ma Makhlouf sorprende tutti. E contrattacca su Facebook con tre video nei quali si lamenta sfacciatamente per l’ingiusto trattamento di cui si dice vittima. «Vergognatevi!», conclude, lanciando un’inedita critica alle autorità siriane dopo essersi presentato come il difensore degli alauiti, sfidando di fatto Bashar, membro come lui della minoranza religiosa che compone l’oligarchia di Damasco.
Secondo un ex consigliere del presidente, dopo un tale affronto chiunque altro sarebbe stato fatto fuori. «Ma non lui, non tanto per il legame di famiglia quanto per le immense ricchezze che nasconde all’estero in conti offshore e in società fantasma su cui Bashar spera di mettere le mani». Il regime siriano è troppo opaco per capire quali altri intrighi turbano in questi mesi il palazzo, ma perseguitando Makhlouf il presidente diventa l’eroe della lotta contro la corruzione. Dimostrando che nessuno è al di sopra della legge. Neanche suo cugino.