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 2020  luglio 02 Giovedì calendario

Così agiva il catasto dell’Isis

Volete una casa o un’auto? A Mosul bastava riempire il modulo, in duplice copia e con il timbro ufficiale. Poi la pratica veniva approvata in tempi rapidi, nel rispetto della volontà divina. Quello dell’Isis era – ed in parte è ancora – un potere spietato e organizzatissimo, con un sistema burocratico onnipresente che regolava ogni aspetto della vita collettiva. Perché la sua forza era proprio quella di presentarsi come uno Stato, in grado di riportare legge e ordine dove prima c’era il caos. Ovviamente la legge era quella islamica e l’ordine veniva imposto con ferocia, ma allo stesso tempo la gestione seguiva regolamenti minuziosi. Adesso una mole sterminata di documenti originali viene offerta in consultazione grazie al progetto “The Isis Files” della George Washington University in collaborazione con il New York Times. Sono pagine che provengono da tutti i territori annessi all’autoproclamato Califfato, dalla Libia all’Iraq, e dimostrano come le norme fossero universali: le stesse procedure erano applicate a Raqqa come a Sirte. Nel descriverli i ricercatori citano “la banalità del male” di Hannah Arendt e in effetti la solerzia dei funzionari jihadisti ricorda la precisione dei gerarchi nazisti: entrambi impegnati a tenere una contabilità meticolosa del genocidio.
Sorprende notare come gli schedari dell’Isis più corposi siano stati recuperati nella regione mesopotamica di Ninive, dove cinquemila anni fa vennero creati i primi archivi della Storia. Oggi come allora, le pratiche trattano soprattutto di agricoltura e pastorizia, a cui sono dedicati il 37 per cento dei file: l’attività più diffusa tra la popolazione e fondamentale per la sopravvivenza dell’economia. Ci sono poi i faldoni della polizia religiosa, un quarto dei documenti, dove si trova di tutto: un padre che denuncia il figlio perché non segue i dettami dell’Islam e frequenti segnalazioni sulla vendita di sigarette, proibita dal Califfato. Grandissima l’attenzione per la zakat, la tassa destinata ai poveri, riscossa in denaro o in natura: l’elemento chiave per costruire il consenso sociale, garantendo così il sostegno dei ceti popolari. Pure un quinto del bottino di guerra, catturato durante le offensive in Iraq e in Siria, veniva devoluto al welfare musulmano. Gli archivi infatti mettono in luce un altro dei segreti del successo dell’Isis: i governatori si mostravano come garanti del bene collettivo e non di interessi di parte, un atteggiamento che risaltava in territori abituati a decenni di amministrazione corrotta o legata agli affari di singoli clan familiari. I giudici intervenivano nelle dispute quotidiane, applicando la legge coranica in maniera apparentemente imparziale: difficile d’altronde che qualcuno protestasse.
Dopo la caduta di Mosul, negli uffici della “capitale” sono stati trovati elenchi e regolamenti per le requisizioni ai danni degli “infedeli”. La categoria più vessata erano gli yazidi, il popolo zoroastriano dagli occhi azzurri, a cui non era riconosciuto alcun diritto: i beni venivano confiscati e le donne costrette alla schiavitù. Poi c’erano i musulmani sciiti: o accettavano il credo sunnita o perdevano tutto. Quindi i cristiani. C’è il verbale dell’incontro con la comunità di Ninive del luglio 2014 a cui è stato chiesto di scegliere: potevano convertirsi all’Islam; accettare di diventare cittadini di serie B, pagando una tassa; oppure morire. Quest’ultima pena avrebbe ricevuto una deroga dal califfo in persona, al Baghdadi, che decise di offrirgli 48 ore per lasciare il territorio del Daesh. Ogni proprietà di chi non accettava le regole o fuggiva diventava patrimonio dello Stato e veniva scrupolosamente inventariata: case, terreni, mobili, auto. Poi era dato in affitto, gratuitamente ai soldati e ai dirigenti dell’Isis mentre per gli altri c’era un canone da pagare. L’ufficio del catasto era rigoroso: verificavano che gli appartamenti non venissero modificati – per quello era necessaria una licenza edilizia – e che le suppellettili non subissero danni. Dal carteggio emergono rari casi di generosità: musulmani che hanno cercato di salvare dalla confisca le case di vicini cristiani fuggiti, processati e condannati per questo.
Contrariamente a quello che si pensa, i vertici del Califfato spesso agivano in modo pragmatico: per fronteggiare la fuga di professionisti – soprattutto medici, ingegneri e tecnici necessari al funzionamento di ospedali, reti idriche ed elettriche — offrono un condono, esteso anche agli “infedeli”, per chi fosse tornato indietro. E non mancavano dibattiti interni, con critiche alla linea del regime: discussioni sempre basate sull’interpretazione del corano, ma che in alcune occasioni hanno formalmente contestato l’atrocità dei leader e delle loro brigate.
Negli Isis files sono disponibili pochi documenti sugli aspetti militari, forse perché ancora custoditi dai servizi di intelligence arabi e occidentali. Spiccano i divieti a fotografare e filmare i combattimenti, per evitare che i telefonini caduti in mano al nemico offrissero informazioni sulle tattiche e gli arsenali delle “bandiere nere”. E c’è un manuale in cui vengono spiegate le battaglie della seconda guerra mondiale, con particolare rilievo per Dunkerque: la ritirata che si è trasformata in vittoria. Non è un caso: è proprio quello che lo Stato Islamico vuole realizzare adesso. Dopo la grande sconfitta, sta riunendo le forze sopravvissute nel nord dell’Iraq e torna all’assalto con sempre più forza.