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 2020  luglio 01 Mercoledì calendario

Trump ordina la ripresa delle esecuzioni capitali

Il primo a morire, il 13 luglio, sarà il suprematista bianco Daniel Lewis Lee. Condannato perfetto per Trump, perché gli consente di dimostrare come lui sia il presidente della legge e dell’ordine, che non guarda in faccia a nessuno. Due giorni dopo il boia del penitenziario di Terre Haute infilerà l’ago per l’iniezione letale di pentobarbital nella vena dello stupratore bianco Wesley Purkey; il 17 ucciderà il trafficante di metamfetamine Dustin Honken; e il 28 agosto Keith Nelson, killer di una bambina, bianco pure lui. È il calendario delle prime esecuzioni federali che si terranno negli Stati Uniti da 17 anni, dopo che lunedì la Corte Suprema conservatrice ha rifiutato di ascoltare i ricorsi presentati per bloccarle per irregolarità varie. Un segnale politico, che magari va contro la tendenza nazionale del calo di popolarità della pena di morte, ma era voluto dal capo della Casa Bianca, anche prima che le proteste violente seguite all’uccisione di George Floyd lo spingessero a scegliere la difesa dell’ordine dagli estremisti di sinistra come uno dei pilastri della campagna per la rielezione a novembre.

La pena di morte negli Usa era stata sospesa nel 1972 dalla sentenza della Corte Suprema Furman vs. Georgia, che l’aveva giudicata punizione «crudele e inusuale», ma nel 1976 la sentenza Greeg vs. Georgia l’aveva nuovamente legalizzata. Gli Stati avevano ripreso subito ad applicarla, mentre il governo federale, che dovrebbe usarla solo per i crimini più efferati di carattere nazionale, aveva aspettato fino al 1988.
Dal 1976 ad oggi, secondo il Death Penalty Information Center, negli Usa sono stati giustiziati 1.518 condannati. Il picco c’è stato nel 1999, con 98 esecuzioni, ma da allora è cominciata la discesa, con il punto più basso toccato nel 2016, ultimo anno di Obama, con 20 condannati uccisi. L’anno scorso sono stati 22, e quest’anno finora 6. Il 75% delle vittime dei reati sono bianchi, il 15% neri e il 7% ispanici, mentre il 55% dei giustiziati sono bianchi, il 43% neri, nonostante rappresentino solo il 13% della popolazione nazionale, e l’8% ispanici. Un altro caso in cui la disparità razziale è evidente, forse per i pregiudizi del sistema giudiziario, forse per le condizioni di vita che spingono più afro americani a delinquere, e forse anche per le disponibilità economiche che non permettono loro di pagarsi avvocati decenti.
La classifica delle esecuzioni dal 1976 ad oggi la guida il Texas con 569, seguito da Virginia con 113 e Oklahoma con 112. Quindi è anche un fenomeno geografico, perché il Sud ha giustiziato 1.242 detenuti, ossia quasi tre quarti del totale. Il metodo preferito è l’iniezione letale, usata 1.338 volte; seguita dalla sedia elettrica, 163; la camera a gas, 11; e poi 3 impiccagioni e 3 fucilazioni. Il boia ha ucciso anche 22 minorenni, fino allo stop della Corte Suprema nel 2005, e 16 donne, che sono decisamente meno pericolose, e infatti oggi rappresentano solo il 2% dei condannati. Al primo gennaio scorso nel «death row», il braccio della morte, c’erano 2.620 detenuti, di cui 725 in California, 347 in Florida e 218 in Texas.
Al momento 28 Stati americani hanno la pena morte e 22 l’hanno abolita. Un calo abbastanza costante, come nel resto del mondo, dove 56 Paesi la usano ancora ma 104 l’hanno abolita. L’Italia da anni promuove la moratoria universale, che viene sempre approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu, ma ignorata da paesi come la Cina, che guida la classifica globale con oltre mille esecuzioni all’anno, seguita da Iran e Arabia Saudita.
L’America, nonostante la percezione mediatica negativa, non è mai stata «first» in questa statistica, dove cala ormai da anni. Le condanne a morte infatti sono scese dalle 295 del 1998 alle 34 dell’anno scorso. Secondo la Gallup, quando poni agli americani la domanda secca se sono favorevoli o contrari a giustiziare i killer, il 56% risponde sì e il 42% no. Se però dai loro l’opzione di scegliere l’ergastolo o pene alternative, il 60% le preferisce. I motivi di questa evoluzione recente sono diversi. Il National Research Center ha dimostrato che nell’88% dei casi la pena di morte non è un deterrente per i crimini che punisce. I soldi sono un altro fattore. In Oklahoma e Texas giustiziare una persona costa circa 3 volte più che mandarla all’ergastolo, mentre dal 1978 ad oggi la California ha bruciato 4 miliardi di dollari per mantenere i boia, soldi che magari poteva usare per la scuola o la sanità. La pena di morte poi è arbitraria, perché solo il 2% dei killer la subisce, e spesso sbagliata, visto che 165 condannati sono stati graziati perché riconosciuti innocenti. Anche l’erronea lettura biblica di «occhio per occhio dente per dente» sta cambiando, a partire dalla Chiesa cattolica, che sulla base del Vangelo oggi insegna: «La pena di morte è inammissibile, perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona». Ma allora perché Trump smania per riprendere le esecuzioni federali? 
Il penitenziario di Terre Huate, al confine tra Indiana e Illinois, era stato voluto da Roosevelt nel 1938, e dal 1993 è diventato il sito dove il governo nazionale giustizia i suoi criminali. Al momento ospita 62 detenuti, tra cui il colpevole della strage di neri a Charleston Dylann Roof, ma il boia non entrava più in azione dal 2003, quando aveva tolto la vita all’ex soldato nero Louis Jones, condannato per l’omicidio della collega diciannovenne Tracie McBride. Le uniche altre due esecuzioni federali erano state quelle dell’attentatore di Oklahoma City Timothy McVeigh e del narcotrafficante Juan Garza, entrambe nel 2001. Nel luglio dell’anno scorso, però, il segretario alla Giustizia Barr ha annunciato che il governo avrebbe ripreso ad uccidere, perché «lo dobbiamo alle vittime e ai loro famigliari». Earlene Branch Peterson, madre e nonna di Nancy e Sarah, uccise da Daniel Lee, ha chiesto di non farlo a nome suo: «Non vedo come prendere la sua vita cambi qualcosa. L’esecuzione non onora mia figlia, ma sporca la sua memoria, perché lei sarebbe stata contraria». Il punto però non è questo. Trump ha sempre sostenuto la pena di morte, da quando l’aveva invocata per i «Central Park 5», adolescenti neri e latini accusati di stupro, ma poi risultati innocenti. Una volta alla Casa Bianca ha detto di volerla per gli spacciatori, e dopo Minneapolis gli torna perfetta per presentarsi agli elettori come il protettore di legge e ordine.