Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2020
Siberia, un avvertimento per l’oil & gas
«La Russia ha un potenziale immenso nel campo delle rinnovabili: sole, vento, biocarburanti, energia geotermica e idroelettrica. Qualunque cosa, ovunque – spiegava nei giorni scorsi sul Moscow Times Georgy Safanov, direttore del Centro per l’Economia dell’ambiente e delle risorse naturali all’Alta Scuola di Economia di Mosca -. Ma le basi economiche del sistema energetico sono molto tradizionali, e molto corrotte». A fronte di una media mondiale del 10%, la Russia trae dalle fonti rinnovabili soltanto lo 0,16% dell’elettricità che consuma. Pochi sperano che si possa superare nei prossimi anni la soglia dell’1%.
Al di là dei proclami del Cremlino, che dopo aver finalmente aderito agli Accordi di Parigi ha fissato per il contributo delle rinnovabili un obiettivo del 4,5% entro il 2024, tutte le attenzioni (e gli investimenti) dello Stato sono per i giganti dell’oil & gas, per le reti di gasdotti diretti in Europa (Nord Stream) o verso la Cina (Sila Sibiri, la Forza della Siberia). E, sempre di più, per i colossali progetti che si fondano sulle risorse energetiche dell’Artico, rese più accessibili e meno complicate da trasportare proprio grazie al cambiamento climatico. «Riscaldamento che rende la Via marittima del Nord più aperta, più facilmente navigabile e meno costosa», spiegava il 9 giugno scorso in un’intervista al Sole-24 Ore il professor Vladimir Romanovsky, geofisico all’Università di Fairbanks in Alaska. La rotta Europa settentrionale-Pacifico attraverso l’Oceano Artico è diventata priorità strategica per il trasporto degli idrocarburi dalle penisole di Yamal e Taymyr, basi del futuro della produzione energetica russa.
Basi costruite sul permafrost. Il 45% dei giacimenti russi di gas e petrolio sono situati nelle “zone rosse” dell’Artico, quelle in cui lo strato superiore del permafrost varia con le stagioni, ed è più instabile. «Yamal – spiega Mikhail Yulkin, direttore del Centro di Arkhangelsk per gli investimenti ambientali – non è poi così lontana da Taymyr (la zona coinvolta dal disastro ambientale di Norilsk, ndr), e quello che è successo a Taymyr potrebbe capitare lì. E allora saremmo in guai seri».
Perché se un incidente dovesse fermare la produzione di gas, «noi il gas all’Europa non lo vendiamo più. In questo senso, i consumatori europei fanno bene a non mettere tutte le uova in un paniere e a diversificare, a non acquistare energia solo dalla Russia». E la stessa Russia farebbe bene a diversificare le proprie fonti di energia, pur nella consapevolezza del contributo cruciale di oil & gas al bilancio dello Stato. «Avrebbe senso dedicare più attenzione all’energia verde – continua Yulkin – e non mettere sempre la vendita di gas davanti a tutto».
Nel frattempo, mentre gli esperti cercando di farsi un’idea del danno subìto dalle acque e dal sottosuolo tra Norilsk e la costa artica, con i veleni del diesel che sembrano proseguire inesorabilmente verso il Mar di Kara, su ordine di Vladimir Putin si lavora alla messa in sicurezza di edifici e infrastrutture, tutto quanto potenzialmente costituisce una minaccia. E si lavora alle nuove tecnologie che le compagnie coinvolte nei progetti artici – Gazprom, Novatek, Rosneft – studiano per tenere conto del cambiamento climatico mentre installano le nuove infrastrutture: termopiloni che limitano il riscaldamento del permafrost, pilastri radicati fino a 28 metri di profondità per mantenerne la tenuta per tutta la durata del progetto in cui sono inseriti. Purché il cambiamento ambientale non corra ancora più veloce.