Affari&Finanza, 29 giugno 2020
Le due fusioni all’ultimo test
Le crisi danno impulso ad aggregazioni e ristrutturazioni. Così, concentrazione del sistema bancario e sviluppo della rete subiscono un’accelerazione con l’Ops di Intesa e il riassetto di Tim, prodromo alla fusione con Open Fiber. Nonostante il polverone di interferenze politiche, personalismi e retroscena, sono operazioni di mercato. Immaginiamo quale potrà essere la loro evoluzione se prevalessero le sole logiche di mercato. Ho già argomentato come un’aggregazione tra Tim e OpenFiber nella rete sia nell’interesse di entrambe dal punto di vista finanziario. Tim deve supplire all’erosione dei margini nel mobile e investire ingenti capitali per lo sviluppo del 5G e della fibra, ma è oberata dal debito. E compete con OpenFiber che, essendo un’iniziativa della politica, ha un futuro economicamente poco sostenibile (oltre ai ritardi negli investimenti).
Si aggiunge ora il diktat del governo che questo matrimonio s’ha da fare. A questo punto, l’operazione più conveniente per gli azionisti di Tim è quella intrapresa con Kkr, sulla falsariga di quanto fatto con InWit: si scorpora un segmento della rete e si cede una quota a Kkr incassando liquidità a riduzione del debito; così si fissa un valore di mercato nel negoziato per la fusione con OpenFiber (dopo uscita di Enel a favore di Cdp o Macquarie).
Tenuto conto dei presumibili valori relativi (e perimetro di rete conferito) a Tim rimarrebbe una quota di maggioranza relativa e un ruolo nella governance, con la relativa fetta dei diritti economici. In questo modo potrebbe deconsolidare debito e costi del personale; e contare sulle linee di credito di OpenFiber per gli investimenti. Ma soprattutto la presenza di Cdp nella società della rete sarebbe la migliore garanzia per Tim di una regolamentazione generosa, perché il bilancio della Cassa (e i dividendi al Tesoro) dipendono in modo cruciale dai dividendi delle partecipate. Inaccettabile invece per Tim sia le ipotesi ventilate di cessione a Cdp della quota di controllo nella società della rete (di fatto, una nazionalizzazione della rete) sia l’acquisto di OpenFiber da Cdp con emissione di azioni Tim (di fatto, una nazionalizzazione di Tim). Con l’approvazione del prospetto da parte di Consob, parte l’Ops di Intesa.Gli scenari possibiliCi sono tre scenari possibili, ma solo uno probabile. L’Ops fallisce perché non raggiunge il 51%: implausibile perché la maggioranza del flottante è in mano a investitori istituzionali e risparmiatori che vedrebbero falcidiato il valore del titolo (fino al 35% se si prende a riferimento l’overperformance di Ubi rispetto all’indice dei bancari europei da inizio anno); né si può sperare nel rilancio di un cavaliere bianco perché in questo momento le banche non le vuole nessuno. Altrettanto implausibile che l’Ops superi il 66,7% necessario alla fusione perché, stando alla Consob, i due patti che si oppongono all’Ops, Carr e Dei Mille assieme detengono il 27% che, aggiunto all’8% del poco trasparente fondo Parvus, guarda caso, raggiunge una quota che impedisce di arrivare al 66,7%.
Qualunque sia l’obiettivo di Parvus (forzare un rialzo o agire per conto di un socio occulto?) non le conviene aderire subito all’offerta. Facile che l’Ops superi il 51% ma non il 66,7%: sarebbe la soluzione peggiore per entrambi. I pattisti perdono il controllo, e si trovano minoranza in una società con flottante minimo e priva degli sportelli ceduti a Bper (cessione che non richiede l’assemblea straordinaria); Intesa perde le sinergie da fusione e si trova a gestire un’altra banca con cost/income elevato, accantonamenti inferiori al sistema ed esposta a una zona molto colpita dal Covid. Ma il Gioco del Pollo insegna che probabilmente uno dei due contendenti scarterà all’ultimo minuto, per timore di ritrovarsi in una situazione peggiore: o Intesa migliora l’offerta, o qualche pattista si defila per paura di perdere e diventare minoranza.