La Stampa, 29 giugno 2020
Intervista a Elio Germano
Attore e regista a teatro in realtà virtuale, pittore nei panni di Ligabue al cinema, esordiente per Netflix sull’Isola delle rose, rapper con un nuovo disco: uno, nessuno, centomila, quanti personaggi interpreta Elio Germano, 40 anni a settembre e miglior attore all’ultimo Festival di Berlino. Al Teatro Parenti di Milano dal 30 giugno si vedrà in 3D con occhiali e cuffie il suo Segnale d’allarme scritto con Chiara Lagani e diretto con Omar Rashid.
E’ vero che si ispira al Mein kampf di Hitler?
«Si basa su una rivelazione finale che, come l’assassino di un giallo, non posso svelare, ma è una provocazione sulla facilità della manipolazione tramite la tecnologia. È la prima di una serie di sperimentazioni in realtà virtuale. Avviene a 360 ° intorno agli spettatori con uno stile immersivo».
L’ideale in questo periodo sia per il tema sia per la tecnica?
«Con una differenza: la realtà virtuale, e in generale la tecnologia, si utilizza spesso da soli in casa, mentre qui è a collettiva e può suscitare dibattito».
Lei è per "il dibattito sì" a fine spettacolo?
«Certo non per il dibattito durante. Teatri e cinema soffrono di spettatori troppo attenti ai loro telefonini. Alla fine, fa piacere se scatta il confronto».
Il comico Natalino Balasso, dopo gli assembramenti di Juve-Milan, protesta perché a teatro sono permessi solo monologhi, e lei?
«Il mio è un finto monologo, perché ci sono una serie di reazioni particolari, ma in scena non c’è nessuno fisicamente. La sperimentazione nasce prima dell’emergenza e torna utile, ma viva il teatro dal vivo».
Lo spettacolo mette in guardia dal ritorno del fascismo, non c’è un po’ di retorica?
«La mia paura non è che ritorni, ma che ci sia già anche se non sventola le bandiere nere. Non mi serve qualcuno con l’olio di ricino per gridare aiuto. Il segnale d’allarme deriva dalla troppa ignoranza e dal bisogno dell’uomo forte, sintomi che ci siamo dentro».
Come uscirne allora?
«Bisogna tornare ai grandi ideali e al pensiero critico. L’edonismo attuale ricorda l’inizio del secolo scorso. Tra i giovani la corsa è agli sport estremi e a chi fa la cosa più matta. Sta a loro non ricadere in forme minori di democrazia, mentre sembra che rifiutino di pensare con la propria testa».
E le tecnologie?
«Si inseriscono in questo discorso peggiorandolo, perché le distanze disincentivano la criticità e il confronto reale».
A proposito di distanze, lei ha iniziato a recitare in piazza?
«Sì, da bambino, e sono fortunato ad esserci caduto così, non perché volevo essere famoso. Per questo sono un sostenitore del teatro non professionale. E trovo fondamentale il teatro a scuola, perché insegna a metterci nei panni degli altri, a non urlare insulti a chi sta peggio di noi per esempio».
Qual è il suo segreto di scena?
«L’assenza di giudizio, come nella vita. Mi piace/non mi piace è una logica da Facebook, invece bisogna capire. In scena significa abbandonarsi e provare a fondo i sentimenti».
Ha detto che più che andare lei da un personaggio cerca di ricondurlo a sé, cioè?
«Dentro abbiamo tutto, siamo tutto, anche ciò che detestiamo, siamo santi e assassini, ma essendo nati con quei genitori, in quel quartiere, in quell’epoca, diventiamo qualcuno di preciso. Per interpretare una parte io mi immagino un’altra origine e ci arrivo».
Ha lavorato nel lockdown?
«Sì e soffro nel vedere che per tanti altri non è così. Ci sono meno occasioni e questo è devastante per la categoria. Ho girato per Netflix, L’isola delle rose di Sydney Sibilia, in cui interpreto Giorgio Rosa che nel ’68 fondò una comunità al largo di Rimini, e posso permettermi di stare alcuni mesi senza lavorare, ma è facile parlare dal mio punto di vista».
C’è un tratto comune dei suoi personaggi, giovani italiani, esclusi e disperati?
«Non ci ho mai pensato, certamente c’è il mio corpo di mezzo e il tentativo in ogni mio ruolo di raccontare la recitazione: sono spesso personaggi che fingono di essere qualcuno e a un certo punto entrano in crisi».
Attore impegnato, ma a darle il ruolo da protagonista è stato Carlo Vanzina ne Il cielo in una stanza.
«Fu un doppio esordio con Gabriele Mainetti. Va riconosciuto a Vanzina di essere stato un amante del cinema, di aver fatto i provini per cercare volti nuovi e di avere puntato sui giovani. Mi presentai da lui con strafottenza perché ero in ballo per una tournée di Shakespeare e quando mi prese andai in crisi».
L’attore che ammira di più?
«Ognuno usa la sua vita e il suo corpo, l’arte avviene dentro e non è facile rubarla. Anche lavorando con Daniel Day Lewis non si riesce a prenderne la tecnica. Da spettatore amo Totò perché dimostra che l’attore può essere qualsiasi cosa, e per lo stesso motivo Corrado Guzzanti».
L’attrice preferita?
«Potrei rivelare l’unica con cui mi sono trovato male, ma preferisco dire un’altra cosa: le donne subiscono ruoli pessimi, sono sempre le mogli di, mentre a me piace quando fanno uscire la loro umanità senza accettare i canoni del giudizio. Penso anche al caso di Giovanna Botteri quando non si è pettinata. A me piacciono gli esseri umani sbagliati».
E la sua vita parallela da rapper come Elio Jazz Germano?
«Il mio gruppo Bestierare dura da 21 anni, più del fascismo, e ora è uscito il disco Tutto sommato. Il rap è una narrazione come il teatro e per me un modo di scrivere testi e non solo interpretarli».
Pronto a compiere 40 anni?
«Con forte disagio. Mi pare un po’ eccessivo. Pensare al futuro crea aspettative e infelicità, per cui cerco di vivere bene il presente. Certo, se in cambio di ruoli e premi mi ridessero 20 anni firmerei subito».