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 2020  giugno 29 Lunedì calendario

Il finale diverso de «Il deserto dei Tartari»

I fogli sono due, scritti a matita e qua e là mangiati e ingialliti dal tempo. Ogni facciata è numerata. Presumibilmente risalgono alla metà degli anni Trenta. Fu in quel periodo che Dino Buzzati ebbe l’ispirazione per Il deserto dei Tartari, il suo romanzo più famoso che proprio in questi giorni compie ottant’anni.
Allora, entrato ventiduenne al «Corriere della Sera» (nel 1928), gli era stato affidato il lavoro notturno in redazione; un lavoro monotono, di routine, «che mi consumava e, con la mia, consumava l’esistenza di tanti colleghi che non avrebbero mai trovato la buona occasione per uscir fuori e diventare qualcuno. Così è nata questa mia idea di descrivere il destino dell’uomo medio». Ed è su questi fogli, emersi per la prima volta dal suo archivio personale, che lo scrittore bellunese appunta l’idea e la sviluppa attraverso la storia di Giovanni Drogo: un giovane ufficiale che passa tutta la sua vita nella Fortezza Bastiani (trasposizione letteraria della sede del «Corriere»), aspettando, in difesa di un Paese non identificato, l’arrivo dei Tartari (incarnazione, spiegherà, della «grande occasione», dell’«ora di gloria», del «cimento che tutti i giovani cercano per natura»; ma anche, in un giornale, della notizia, dello scoop che porta quell’«ora di gloria»).
È su queste quattro facciate che Buzzati dà alla storia una prima struttura, qui mette a fuoco la trama («Lui arriva, gli spiegano il servizio, tutti parlano della vita alla fortezza, la caccia, le cavalcate, l’ispezione generale. E della città niente»), annota significati («La fortezza sarà la sua vita»), scenari («Questa fortezza, assurdo esilio dove il tempo scorre monotono e manca ogni svago...»), stati d’animo («...rinchiude lentamente Giovanni Drogo pur crescendo in lui sogni eroici. E di questo si accorgerà solo alla fine»). Qui, soprattutto, dove immagina per il protagonista un destino diverso da quello che conosciamo.
Il libro venne pubblicato per la prima volta da Rizzoli nella neonata collana il Sofà delle Muse, diretta da Leo Longanesi. Fu lui a chiedere a Buzzati, già autore di Bàrnabo delle montagne e Il segreto del Bosco Vecchio, se aveva un romanzo pronto da dargli. Questi, che aveva scritto quella storia innanzi tutto per sé, per sintetizzare «la sorte dell’uomo sulla faccia della Terra» partendo dalla propria esperienza personale, non pensava alla pubblicazione: «Mi guarderò dal far stampare un altro libro se non sarò sicuro assolutamente di aver fatto una cosa in gamba», aveva detto all’amico Arturo Brambilla. Ma quando Longanesi glielo chiede, non sa resistere e gli consegna il manoscritto: «È difficile a quell’età rinunciare alla pubblicazione», avrebbe confessato anni dopo, «bisognava essere degli eroi, quale io non sono stato». Rivelando poi: «Mi hanno raccontato che Longanesi fece leggere il manoscritto a un suo critico di fiducia e che questi glielo restituì dicendo che non valeva nulla. Allora lui, che era un bastian contrario per natura e per vocazione, lo mandò subito in tipografia».
Il deserto dei Tartari esce il 9 giugno 1940, il giorno prima dell’entrata in guerra annunciata da Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia. Non ci vuole molto a intuire che il libro ha qualcosa di speciale, di nuovo. La storia di Giovanni Drogo, recensita sul «Corriere» da Pietro Pancrazi («è uno dei romanzi più singolari che si siano pubblicati da noi gli ultimi anni»), è perfetta per quei tempi: parla a chi parte per il fronte, ma anche a chi resta a casa e aspetta; parla a chi sta facendo il bilancio della propria vita e a chi vi si sta affacciando, soprattutto a quei giovani tra il ginnasio e il liceo, la «Generazione del Deserto», come la definì, facendone parte, Giulio Nascimbeni, che scoprivano la possibilità di una nuova letteratura, legata «a una condizione umana non propriamente eroica». Per loro il Deserto diventa il libro dell’attesa. Un invito a guardarsi dentro attraverso quello che (non) succede fuori.
Proprio come durante i giorni del lockdown, quando più di un intellettuale ha ricordato quel romanzo, così attuale a dispetto dei suoi ottant’anni, per le analogie con la situazione che si stava vivendo: la fortezza-casa, l’attesa, il nemico all’esterno da cui difendersi. Il senso distorto del tempo. Quel tempo fatto per Drogo di abitudini, di giorni tutti simili che la Fortezza inghiotte uno dopo l’altro a una velocità vertiginosa e che scandiscono la fuga del tempo. Quel tempo sospeso, vuoto, immobile che proprio la sua morte riempie, dandogli un senso.
Per questo colpisce l’intenzione originaria di Buzzati di chiudere il libro con un epilogo diverso. Secondo i suoi appunti i Tartari non arriveranno mai, e Drogo, malato, non sarà costretto a lasciare la Fortezza proprio mentre stanno arrivando, esonerato a forza dai nuovi arrivati che lo vedono come un peso; non morirà durante il viaggio di ritorno, da solo nella stanza della locanda, accogliendo «lei» che era andata a prenderlo. No. Drogo, dopo aver fatto carriera ed essere diventato colonnello, tornerà in città, dove più nessuno l’aspetta. E in un futuro non precisato tornerà addirittura alla Bastiani con il capitano Ortiz. Scrive Buzzati: «Ritorneranno insieme a rivederla la fortezza ma ormai è vuota. Il sistema di difesa è diverso. Vive soltanto il vecchio calzolaio Matteo (figura assente nella versione definitiva del romanzo, ndr), e i tre parlano insieme guardando ancora all’orizzonte da cui non verrà mai nessuno».
Un finale malinconico e struggente, che se da un lato amplifica la rappresentazione di una vita stritolata negli ingranaggi, in perenne attesa della grande occasione che non arriverà mai, svuotando così per sempre il cassetto dei nostri sogni, dall’altro conferma ancora una volta quanto sia sentita da Buzzati l’idea della morte che governa la vita; quanto la sua presenza la riempia, le dia significato e valore. Lo dirà in Poema a fumetti, lo vivrà in prima persona nel Reggimento parte all’alba.
Dunque non stupisce che abbia cambiato idea. La fine silenziosa ed elegante dell’antieroe Drogo che, scrive Pancrazi, arriva alla Fortezza «pieno di vigorose speranze e di nobile malinconia», poi diventa «misurato e saggio» e alla fine «rassegnato e vinto», è il suo personale riscatto, la prova che la sua vita non è stata inutile. Che anche se non ha potuto affrontare i Tartari, ora sa come affrontare la morte: con un sorriso.