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 2020  giugno 28 Domenica calendario

Intervista a Vasco

«Che faccio, li tengo su gli occhiali? Perché quando faccio le interviste con voi forse è meglio che li tenga... », ride. Vasco si manifesta sullo schermo del computer. Sul suo sfondo tanti piccoli quadri: sono gli inconfondibili disegni di Federico Fellini. Sulla sinistra quello di una donna dalle forme generose la cui testa si perde tra le nuvole. Un segno.
Ancora a Rimini!
«Vi faccio vedere anche un po’ di panorama (si sposta con il computer inquadrando un giardino verde e uno spicchio di mare più in là). Ho spostato a Rimini il mio quartier generale perché qui avremmo dovuto fare le prove per i concerti che poi sono saltati. Alla fine ho deciso di venirci lo stesso, un po’ per scaramanzia, un po’ perché ho un sacco di ricordi, ci vengo dall’85: prendevo una casa, si stava bene.
E adesso da dieci anni ritorno alla "suite Fellini". Ci sono venuto anche ai tempi di Modena Park. Non volevo stare a Modena o nei dintorni perché avrei sentito troppo la tensione: questi sono proprio gli stessi giorni in cui andavo su e giù, ogni volta due ore e mezza con l’aria condizionata che una volta è esplosa!
A Rimini io mi sono sempre sentito a casa: sarà il carattere dei romagnoli, sarà l’affetto che sento e anche la similarità che la Rimini degli anni 60 ha con la Zocca dello stesso periodo, quando c’era la "villeggiatura" e i turisti venivano anche da noi in montagna. Infatti, Amarcord , mi aveva colpito perché c’era una scena proprio uguale a quello che succedeva da noi: quando eri al cinema e in un film cominciava a nevicare c’era sempre uno che gridava "Nevica!" e andavamo tutti fuori a vedere se nevicava davvero (ride)...» .
Ma Fellini l’ha mai conosciuto?
«Nell’86-87 quando avevo la casa qui, una sera ho ricevuto l’invito del maestro per andare a cena. Ero allibito! Così con Guido Elmi (produttore di Vasco, ndr ), andammo al Grand Hotel, proprio quello dove sto adesso, ma quella era la prima volta che lo vedevo. Appena arriviamo Giulietta Masina dalla finestra mi vede e mi lancia una rosa. Eravamo già in un film!» .
Ci racconta qualcosa di questa "Tempesta perfetta"che è entrato persino nel Guinness dei primati come il concerto con più spettatori paganti della storia...
«I giorni prima del concerto credo che siano stati i più caldi della storia dell’umanità! Eravamo tutti emozionati. Quando è il momento prendiamo l’elicottero per andare: si moriva e io ero lì con la sciarpa perché dovevo proteggere la gola.
Quando finalmente si mette in moto e inizia a entrare un po’ di fresco l’elicottero non si alza subito: parte un po’ come un aereo sulla pista, solo che non finiva più, una cosa molto strana, per cui dico "Scusa ma ci andiamo con le ruote a Modena?"».
In elicottero come gli artisti di
Woodstock! E non è un caso vista l’entità dell’evento...
«È stata un’esperienza incredibile ma bisognava tenere i nervi saldi. Avrei dovuto cantare per tre ore e mezzo!
Così per mesi mi sono esercitato tutti i giorni per più di due ore. Alla fine sono arrivato a cantare come sempre Albachiara con la voce che sembrava stessi facendo la prima canzone!».
Non è sempre stato facile però: all’inizio era tutto da conquistare...
«Pensi che dopo quello che sarà stato credo tipo il terzo concerto della mia vita volevo smettere».
Davvero? Perché?
«Ero uno sconosciuto e quando è così il pubblico se va bene è indifferente se non addirittura ostile. Ti insultano ma vabbé lo metti in conto, quando ti tirano le cose però è diverso. Una volta c’erano questi fighetti del bar di fianco al nostro palco che facevano delle freccette di carta e me le tiravano: mi sono sentito talmente umiliato che non volevo salire mai più su un palco, volevo sparire. Ho preso la macchina e mentre tornavo a casa invece mi è scattato un meccanismo: "No, non smetto io. Se qualcuno mi tira le freccette la prossima volta scendo dal palco e lo prendo per il collo". E così da allora, se uno mi dava fastidio io scendevo, sempre cantando nel microfono, e lo prendevo per i capelli finché arrivava qualcuno a darmi una mano. Era una cosa fisica, una guerra! Ma così ho imparato a stare sul palco».
Tornando a Modena Park, perché iniziare con "Colpa d’Alfredo"?
«L’inizio è fondamentale. Volevo incominciare da solo, senza musica perché quando incomincia la musica sei protetto. Ma non volevo rendermi le cose facili, volevo una cosa diversa, lanciare una sfida a me stesso.
Doveva essere come parlare con degli amici che da anni non vedevo più. E poi mi è venuta l’idea: Colpa d’Alfredo! Non solo iniziava parlata ma citava anche "Modena. Modena Park". Era perfetta! Tutto tornava...».
Se fosse stata fatta oggi una canzone simile chissà che scandalo avrebbe suscitato.
«Ma è una storia! Non è né sessista né razzista: è una storia di provincia.
Modena per me era un grande Luna Park notturno e Colpa d’Alfredo era un po’ la Febbre del sabato sera in salsa romagnola, quando andavi nei locali per intortare, mica per ballare.
A me poi quel film non piaceva, per non parlare della musica dei Bee Gees: non l’ho mai sopportata: la voce soprattutto, quel falsetto brutto...».
Perché ha chiamato questo evento "La tempesta perfetta"?
«Perché è andato tutto così bene da non crederci. Io neanche nei miei sogni più sfrenati ho immaginato di arrivare a questo successo. Credevo che al massimo avrei avuto una mia piccola nicchia. E invece...».