La Lettura, 27 giugno 2020
A colloquio con Herbert Lieberman
Come la sua voce, anche Herbert Lieberman, 86 anni, maestro a lungo dimenticato del giallo americano, sembra arrivare da un altro mondo. Le poche foto che lo ritraggono rimandano l’immagine seppiata di un uomo ancora giovane. Risalgono ai tempi in cui era il direttore della «Reader’s Digest», la rivista mensile statunitense fondata nel 1922, che usciva nel caratteristico formato tascabile, detto appunto digest. Erano i tempi in cui Lieberman era anche un romanziere piuttosto prolifico, nella New York nera tra gli anni Settanta e gli Ottanta. «Ora non scrivo più, a questa età l’immaginazione si ferma, ci vogliono energia e fantasia per scrivere e io non ne ho più» si affretta a dire al telefono dalla sua casa di Los Angeles. Nel 1986 ci aveva provato Sperling & Kupfer a portare in Italia uno dei suoi noir, Il fiore della notte, ma non aveva avuto un grande seguito e Lieberman era caduto presto nel dimenticatoio. La Francia invece lo ha sempre amato al punto da assegnargli, per Città di morti, il premio più importante in assoluto dei polizieschi, il Gran Prix de la Littérature Policière.
Che Lieberman sia un maestro del genere non ci sono dubbi. Ma forse i suoi romanzi, duri e realistici, con virate horror, sono arrivati troppo in anticipo sulla scena letteraria. Da qualche anno minimum fax ha riscoperto questo scrittore appartato e ha pubblicato la trilogia newyorkese che vede alternarsi due personaggi che si incrociano diventando ora protagonisti ora comprimari. In questi giorni è arrivato in libreria Caccia alle ombre, con il tenente di polizia Frank Mooney, solitario e insofferente a ogni regola, e Paul Konig, medico legale e anatomopatologo, duro e irascibile, temuto da colleghi e poliziotti, ma capace di leggere le storie che i cadaveri raccontano (era stato al centro di Città di morti).
Nel nuovo romanzo Mooney si trova ad affrontare la caccia a uno stupratore e omicida seriale, ribattezzato «Ombra Danzante». Il serial killer (o sono due?) tiene in scacco la città e le indagini di Mooney, a due passi dalla pensione, sembrano non arrivare a nulla mentre le autorità vogliono assolutamente un capro espiatorio. La sua indagine è lunga e complessa e se il meccanismo di caduta e risalita del detective è un classico del crime, bisogna tenere presente che Lieberman ci è arrivato prima di altri. La sua è una lingua accurata che non resta in superficie, né dei caratteri né degli snodi narrativi. Il detective Mooney manca completamente delle caratteristiche dell’eroe: cinico giocatore di corse di cavalli, deluso e sovrappeso, ma finalmente pacificato sentimentalmente rispetto al romanzo precedente (ha sposato una ricca ristoratrice che si prende cura di lui e ne condivide la passione per le scommesse), è un personaggio a cui Lieberman dà una profondità psicologica. Così come l’anatomopatologo Konig, che qui è comprimario, sembra il precursore della Kay Scarpetta di Patricia Cornwell e della Temperance Brennan di Kathy Reichs.
Nato a New Rochelle, nello Stato di New York, Lieberman ha origini europee: «I miei nonni erano tedeschi, ma io sono nato qui, negli Stati Uniti, e sono definitivamente più americano che tedesco. Anche come scrittore, i temi, le atmosfere americane mi interessano più dei temi e delle situazioni europee. Eppure leggo e amo molti autori europei, come Dostoevskij e Kafka». Letture che si intuiscono proprio in quelle discese nella profondità del male che non inseguono l’adrenalina dei colpi di scena. Si sente tutto l’influsso degli autori amati, anche statunitensi, Faulkner principalmente: «Secondo me è il più grande degli scrittori americani. Lo rileggo spesso e trovo sempre cose nuove. So che la maggior parte direbbe che Hemingway è il più grande, ma credo che non sia nemmeno lontanamente interessante quanto Faulkner. Mi divertono ancora i libri di Salinger».
Leggendo i romanzi di Lieberman si capisce come il noir per lui sia soltanto un involucro, un contenitore. E non perché intenda il giallo come romanzo sociale. A «la Lettura» lo spiega così: «Nei momenti migliori non era tanto il mondo esterno a interessarmi, quanto piuttosto il mio mondo interiore. Cercavo di raccontare cose che sperimentavo nel mio intimo, che sentivo e mi spaventavano e che quindi, potenzialmente, potevano spaventare anche altri». Sono quelle, secondo Lieberman, le cose migliori che ha scritto tra i quattordici romanzi che la sua biografia elenca. «Ciò che sentivo, di cui avevo paura, le cose che mi divertivano o che amavo: da questo sono nati i miei lavori migliori. Quando ho cominciato ad essere più motivato da cose esterne, dalla situazione politica per esempio, da eventi internazionali, la mia scrittura è diventata meno efficace. Ma credo sia normale: con gli anni la tua mentalità muta e quindi anche ciò che ti interessa. La verità è che sono molto cambiato nel tempo e non sono più la stessa persona di allora. Forse per questo non scrivo più».
Eppure in passato per lui la scrittura è stata una pratica quasi ossessiva. «Ho cominciato quando avevo 14 o 15 anni e lo facevo ogni giorno. Da adulto, anche quando avevo un lavoro a tempo pieno come editor, trovavo sempre il tempo e il modo per scrivere. Per me era molto importante, non potevo smettere. Era quasi una compulsione: potevo farlo ovunque, nella metropolitana, sull’autobus, in aereo. Improvvisamente avevo un’idea e dovevo subito mettermi a riportarla sul mio taccuino, per paura di perderla. Sedevo per ore e ore a scrivere le mie paure e a trasformarle in fiction. Leggevo un articolo sul giornale che mi ispirava, sentivo di un fatto di cronaca. È stato un magnifico mestiere allora».
Lieberman non si rammarica troppo di non scrivere più, invece si rammarica che oggi si legga molto meno di una volta: «È stata la televisione a fare, per prima, grandi danni alla lettura, poi è arrivato Internet. Leggere è uno sforzo, devi capire esattamente che cosa lo scrittore vuole dire». Lui finisce almeno un libro al mese: «Non è molto, lo so, ma sono libri grandi, quasi sempre saggi ponderosi. E comunque leggo molti giornali, sono interessato alla politica, all’attualità. Da giovane preferivo la fiction alla saggistica. Una volta anche i romanzieri potevano raccontare la situazione politica. Ora non succede più così spesso e questo mi manca. Non è facile oggi trovare romanzi interessanti». I saggi sulla società, sullo stato del mondo lo interessano di più «perché è pauroso quello che sta succedendo a livello politico, sociale, economico; ci vogliono scrittori che sappiano capirlo e spiegarlo alla gente. La situazione è preoccupante anche qui in America perché chi è al comando non è abbastanza qualificato o abbastanza intelligente per prendere le decisioni. È triste dirlo, ma si deve soltanto sperare in una illuminazione che tocchi i nostri politici. Comunque, nei buoni libri puoi trovare le risposte necessarie ad alcune domande che hai in testa».
Lieberman vive a Los Angeles dopo molti anni trascorsi a New York. «Con mia moglie ci siamo trasferiti quando si è trasferita mia figlia, dopo il matrimonio. Là eravamo soli, qui c’è lei, ci sono i miei nipoti». Ma la città dell’anima rimane New York, che è anche la coprotagonista dei romanzi di Lieberman. Una città non ancora glamour, quella degli anni tra la metà dei Settanta e la metà degli Ottanta, la capitale del crimine, la metropoli che faceva paura, dove le possibilità di essere derubato, o rapinato, erano altissime; dove anche la polizia sconsigliava di uscire per strada in certi quartieri dopo il tramonto, dove il senso di precarietà, l’abbandono, si respiravano insieme all’aria.
Lieberman c’è, la osserva, la racconta, la descrive come una città di morti, come dice il titolo del primo romanzo della serie, o come una città disillusa e stanca. «Eppure mi manca molto – ammette oggi lo scrittore —. Sono un newyorkese di nascita, sono cresciuto lì, ho lavorato lì per la maggior parte della mia vita. Se non avessi la famiglia a Los Angeles, probabilmente ci tornerei. New York mi è rimasta nel sangue».