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 2020  giugno 27 Sabato calendario

Storia triste del diamante più grande del mondo

«La gemma chiamata Koh-i-Nur… sarà rimessa dal maharaja di Lahore alla regina d’Inghilterra». Così recitava il documento che in data 29 marzo 1849 annunciava una storica decisione: la consegna nelle mani della regina Vittoria del più grande diamante del mondo, chiamato «montagna di luce». Ma non solo: alla cessione della gemma si accompagnava il trasferimento alla Gran Bretagna di ampie zone del più ricco e fiorente territorio dell’India che fino a quel momento aveva costituito il regno indipendente dei sikh. 
Ad apporre la firma al trattato capestro fu Sua Altezza Duleep Singh nella sala del trono tappezzata di specchi al centro del Forte di Lahore: da mesi gli inglesi esercitavano violenze e pressioni su di lui. Il padre di Duleep Singh, il re Ranjit Singh, detto il Leone del Punjab, era morto da anni, mentre la madre, Rani Jindan, bella, intelligente e volitiva, era stata imprigionata in un palazzo fuori città. La bandiera del regno sikh fu ammainata e al suo posto sventolarono i colori britannici. L’ex sovrano, che era stato privato di tutto, dei suoi affetti ma soprattutto di sua madre a cui era legatissimo, aveva solo dieci anni. È questa una delle pagine tra le più inquietanti e crudeli del colonialismo inglese. 
Adesso a ricostruirla interamente per la prima volta, accompagnandola alla suggestiva storia delle trasmigrazioni dall’Iran, all’Afghanistan, al Punjab della pietra più famosa del globo, circondata da un alone di mistero e da una leggenda nera, sono William Dalrymple e Anita Anand in Koh-i-Nur. La storia del diamante più famigerato del mondo. 
Saggista e ricercatore britannico che soggiorna a lungo a Nuova Delhi per scrivere i suoi libri dedicati all’India, Dalrymple narra nella prima parte del volume le peripezie del Koh-i-Nur. Estratto nel 1300 da una delle miniere diamantifere dello Stato dell’Andhra Pradesh, passò attraverso guerre, orrori e massacri, creandosi la fama di causare la morte dei re che ne venivano in possesso. Nella seconda parte della ricerca, invece, la saggista anglo-indiana Anand ricostruisce la triste sorte di Duleep Singh che, giunto al potere nel settembre 1843 all’età di cinque anni, subì le vessazioni della Compagnia Britannica delle Indie Orientali. 
Nata un secolo prima come una piccola impresa di 35 dipendenti che avevano iniziato la loro avventura in un minuscolo ufficio della City di Londra, la Compagnia era diventata la società per azioni più potente e più massicciamente armata della storia: nel 1800 il suo esercito era il doppio di quello dell’Inghilterra. Dopo che furono definitivamente sbaragliate le armate dei sikh, si insediò a Lahore come Viceré dell’India, lord James Broun-Ramsay, marchese di Dalhousie, che promise: «Pace e amicizia perpetue tra il governo britannico e Sua Altezza Duleep Sing, i suoi eredi e successori». Ma in privato, riferendosi a Duleep, scrisse: «Ho catturato la mia lepre». E lo trattò proprio come un animale in gabbia: affidò a genitori adottivi, il medico scozzese John Spencer Login e sua moglie Lena, il giovane maharaja che fu tenuto lontano dalla madre la quale, fuggita di prigione, si era rifugiata in Nepal. 
La gemma di proprietà di Duleep fu spedita a Londra sulla nave Medea il cui viaggio fu disturbato da forti raffiche di vento, dal colera e dagli assalti dei pirati. Mentre il bastimento entrava nel porto il diamante confermò la sua fama di menagramo: la regina Vittoria fu aggredita e ferita gravemente da un folle con un bastone da passeggio. Quando il celebre gioiello fece il suo esordio sulla scena londinese nel 1851, all’Esposizione Universale a Hyde Park, ottenne poi solo critiche: dai visitatori e dal Times fu giudicato assai poco luminoso e tagliato male. Venne quindi ridotto di spessore e lavorato con sfaccettature perché potesse assumere nuovi riflessi e splendore. Anche Duleep approdò con il padre e la madre adottivi alla corte di Londra ed entrò nelle grazie della sovrana. «È estremamente bello, parla inglese perfettamente e ha modi garbati, aggraziati e solenni... Provo sempre tanta compassione per questi poveri principi indiani deposti», commentò la regina Vittoria, rifiutandosi però di rimborsare all’ex re una somma equivalente al valore della pietra che gli era stata sottratta. Dopo 13 anni fu concesso a Duleep di rivedere la madre: in lui, come una fiamma inattesa, si riaccese il dolore, fino a quel momento tenuto sotto controllo, per tutto quello che aveva perduto. Divenne alcolista e fece moltissimi debiti. Fu spinto a convolare a nozze, con la speranza che una compagna lo aiutasse a placare la sua irrequietezza, ma la moglie, una bella sedicenne poco istruita, vissuta al Cairo, che non parlava inglese, non poté far nulla. 
Duleep si spense a Parigi Il 21 ottobre 1893, solo e in povertà, a 53 anni. Alla scomparsa della regina Vittoria nel 1901, Koh-i-Nur passò non a Edoardo VII, il nuovo imperatore d’India, ma alla consorte Alessandra, nel 1911 fu donato a Mary, sposata a re Giorgio V e infine fu affidato a Elisabetta, in una linea ereditaria tutta femminile nella convinzione che le donne fossero esentate dalla maledizione.
Nel 1947, poco dopo la proclamazione dell’indipendenza, dall’India venne avanzata la richiesta del ritorno a casa del Koh-i-Nur. Lo rivolevano pure il Pakistan e il governo dei talebani. Ma gli inglesi furono irremovibili e, durante una visita in India, il primo ministro britannico David Cameron, probabilmente pensando alle controversie sulla Stele di Rosetta e sui marmi del Partenone, si giustificò: «Se dicessimo di sì ci ritroveremmo presto con il British Museum svuotato». La vicenda irrisolta del diamante, oggi conservato nella Torre di Londra, pone l’interrogativo se sia possibile rimediare alle sopraffazioni e ai torti del colonialismo, come la memoria della tormentata vita di Duleep reclama.