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 2020  giugno 27 Sabato calendario

Intervista a Simona Vinci

Simona Vinci torna, a distanza di anni, al suo viaggio in Groelandia raccontato in un libro atipico come Nel Bianco, proposto ora da Neri Pozza. Un libro che è sì il diario di un’avventura in terre estreme, ma anche narrazione, quasi un’autoanalisi; una riflessione, si direbbe, sullo spaesamento; un libro, come ci dice in questa intervista, «nato da un sogno infantile» per un’autrice che dall’infanzia, o dall’adolescenza e dalla sua impenetrabilità, ha tratto il folgorante esordio, quando pubblicò nel 1997 Dei bambini non si sa niente. Da allora, la sua storia di scrittrice è come una tormentata fedeltà, tra solitudine e ricerca dell’altro, tra bellezza e orrore, alla prima, vertiginosa domanda.
Simona Vinci, degli eskimesi non si sa niente?
«Intanto chiamiamoli inuit perché per loro la denominazione eschimese (che vuol dire "mangiatore di carne cruda") è offensiva. Inuit invece significa semplicemente "gente" ed è il termine più appropriato per questa popolazione artica della quale in effetti, a parte i luoghi comuni - igloo, cacciatori di foche, animismo - sappiamo molto poco. È invece una delle più affascinanti del mondo, anche se, da un certo punto di vista, quasi estinta per quanto riguarda le antiche credenze, la mitologia, lo sciamanesimo e i modi di vivere del passato». 
Battute a parte, come è nato questo libro, abbastanza atipico almeno in apparenza nella sua produzione?
«Io ancora convivo con una Barbie Inuit che abbraccia la sua foca seduta sullo scaffale dei libri di viaggio e la passione per il Nord mi ha rapita quando ero ancora una bambina che leggeva Jack London e Yurij Rytcheu (uno scrittore ciuckio siberiano). Ovvio che per me il Nord dell’Alaska, quello della Siberia e l’Artico della Groenlandia a quei tempi erano un unico posto immenso e bianco e ci ho messo parecchio tempo per distinguerli sul mappamondo. Credo che Nel bianco sia un testo che ha segnato una svolta importante per me come scrittrice: è stata la prima volta che ho mescolato all’interno di un testo letterario generi diversi e la prima volta in cui la voce narrante in prima persona coincideva esattamente con quella dell’autore cioè io. È da questa prova che poi è nato La prima verità, che per me ha avuto un’importanza particolare, forse pari a quella del mio primo romanzo, Dei bambini non si sa niente».
"La prima verità" vinse il Campiello nel 2016. Un romanzo-reportage sull’isola di Leros, in Grecia, e sui migranti lì ammassati in condizioni terribili. Un libro di scoperta, in qualche modo, lateralmente, anche di viaggio. Ma soprattutto con un’altissima temperatura emotiva. Qui invece il viaggio sembra il tema centrale.
«Nel Bianco è un racconto di viaggio ma è anche il tentativo di comprendere cosa accade quando ci si muove nel mondo. Si parte per determinati motivi e nel corso del viaggio si scoprono risposte a domande che non ci eravamo neanche posti. Ci si confronta con l’altro, inteso anche come l’altro che ci portiamo dentro e che impariamo a conoscere soltanto in relazione alla diversità di un luogo e di coloro che lo abitano». 
Penso ai suoi altri viaggi, magari anche nel perimetro della propria stanza, o lungo le strade più o meno desolate della pianura padana. C’è qualcosa che accomuna questi spazi?
«Forse sì, ora che mi ci fa pensare è il loro essere in bilico tra esistenza e cancellazione: se pensi all’Artico, con i ghiacci che si sciolgono, alla popolazione Inuit che sta perdendo le sue peculiarità, schiacciata da un contemporaneo che non contempla una visione differente rispetto al produci, consuma, crepa, cui siamo abituati; o all’isola di Leros con quel monumento che sono gli edifici della Marina Militare italiana per decenni usati come manicomio e quasi un campo di concentramento per gli indesiderati (matti o dissidenti che fossero) negli anni peggiori, e oggi utilizzati come campo rifugiati per rinchiudere i profughi in arrivo dalla Siria e transitati dalla Turchia. Sono attratta dai luoghi in cui convergono bellezza e orrore. Per tornare alla pianura, che è poi il luogo dove bene o male vivo da sempre, anche qui, l’ossessione mia è ciò che muta e ciò che si perde nel processo di mutazione. Ci vuole molto tempo per comprendere l’evoluzione dei luoghi e dei loro abitanti e mi interessa tantissimo questa connessione stretta, imprescindibile, tra territorio e umanità. Rispetto, rapacità, cura e distruzione, disattenzione e nostalgia».
Luoghi in bilico…
«Sì, io amo i luoghi in bilico, le persone in bilico. L’idea che una cultura così rispettosa della natura come quella inuit, e che non ha avuto mai bisogno di costruire monumenti (cosa vuoi mai costruire sul ghiaccio?!) possa scomparire per sempre mi fa male, anche perché quella cultura potrebbe insegnarci tantissimo su come si sopravvive in un ambiente ostile senza distruggerlo per asservirlo alle nostre esigenze e al profitto». 
Quanto conta per lei la solitudine?
«La solitudine che non ho più da quando ho avuto un figlio che è l’esatto opposto di me e vorrebbe sempre stare in compagnia! Per me la solitudine è sempre stata fondamentale, fin da bambina: per pensare, leggere e scrivere è necessario stare da soli».
Nei suoi libri lei, come personaggio-autore, parla poco e ascolta molto. C’è come un silenzio attento, un’attesa. Di che cosa?
«In realtà negli ultimi libri l’ho fatto, ho parlato di più perché ho sentito che una certa parte del mio percorso esistenziale poteva forse avere un valore anche per altre e altri, anche se in effetti preferisco raccontare, e ascoltare quindi, le storie degli altri. Credo che uno scrittore sia davvero fatto moltissimo anche di questo: attesa e capacità d’ascolto» 
Il Bianco. Quanto è importante, anche a livello simbolico?
«Associo il bianco a quei due elementi che ho appena nominato ovvero attesa e capacità d’ascolto; il bianco offre un’immagine del vuoto, del nulla che all’improvviso può però essere riempito: di caratteri scritti, come la pagina bianca, di uomini e animali che passano, come un manto di neve e ghiaccio. Poi certo, c’è anche il lato spaventoso, il bianco può annichilire, così come l’attesa di qualcosa che non avviene mai». 
Qui gli Inuit sono particolarmente silenziosi e persino impenetrabili. Quanto è importante l’Altro, sempre presente nei suoi libri?
Importantissimo, anche se non è necessario che sia un altro in relazione diretta con me, io amo molto osservare, cercare di comprendere le persone da come si comportano, da come si muovono, come parlano. Senza un altro, fosse soltanto un occhio che ti guarda e cerca di decifrarti, non si può esistere». 
Ormai hai alle spalle molti romanzi, e tutti in qualche modo coerenti. Quando si chiede che cosa sia una scrittrice, uno scrittore, e che cosa ci si attenda da loro, come si risponde?
«Per me scrivere è sempre stato un processo di scoperta. Capisco le cose scrivendole, mi chiarisco stando dentro il limite della grammatica e della sintassi di una lingua. Ci sono tanti tipi di scrittrici e scrittori, e tra questi ci sono quelli che partono dalle storie da raccontare e altri che partono da una cadenza, da un ritmo, da una lingua appunto; io credo di stare a metà tra questi due tipi. Ho cominciato con i racconti, da ragazzina, poi sono presto passata alla poesia e per anni mi sono dedicata a quella, anche se non ho mai pubblicato niente. Per me la cosa essenziale è riuscire a far risuonare sulla pagina un movimento e sapere che chi legge le mie cose magari non ci sta comodo, dentro quelle pagine, ma vuole restarci lo stesso perché sente che è un’esperienza esistenziale. Che ci stiamo muovendo insieme alla ricerca di qualcosa e stiamo facendo un percorso etico ed estetico. È la stessa cosa che cerco nei testi degli altri. Se non percepisco questa ricerca, mi annoio e lascio perdere». 
Se non vado errato, in questi mesi di reclusione o ossessione da virus, ha parlato poco…
«Dipende. Tengo una rubrica per una rivista che si chiama Coop Consumatori e ogni mese scrivo un piccolo pezzo legato all’attualità e ho scritto dell’esordio del virus, di quello che stava accadendo nelle case, della didattica a distanza. Se invece si riferisce ai social, be’, da un lato non ne ho avuto il tempo, perché mio figlio è a casa dal 23 febbraio, dall’altro le modalità con cui si "discute" sui social non mi interessano. E inoltre cerco di non parlare a vanvera, soltanto per dire la mia, di ciò che non conosco. Anche i social io li vivo come un’attesa silenziosa, resto spesso in ascolto, ogni tanto parlo». 
Ora la maggioranza delle persone sembra voler dimenticare, come se fosse "guarita" da un lunga malattia. Ma su "questa" malattia per ora l’impressione è che ci siano state infinite chiacchiere e poco altro, mentre si affacciano i primi diari. Secondo lei se ne può o se ne deve scrivere?
«Credo che per scrivere davvero di un evento traumatico che ancora non è finito, che ha modificato moltissimo le nostre esistenze e ci ha costretti a non dare per scontato quasi nulla, ci voglia un tempo lungo. La cronaca - o la diaristica, per dire - e la letteratura sono cose molte diverse. È inevitabile che questo evento segnerà le narrazioni a venire e lo farà in modi che ancora non riusciamo neanche a immaginare. Forse saremo invasi da narrazioni sui mesi del lockdown, e probabilmente saranno quelle meno interessanti, poi arriverà qualcuno che con uno sguardo nuovo sarà capace di farne materia letteraria».