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 2020  giugno 27 Sabato calendario

Intervista a Javier Cercas

Tanti anni fa l’amico Bolaño trovava assurdo che il suo nome non comparisse nei dizionari della letteratura spagnola contemporanea e lo spinse a non mollare la carriera di scrittore. E fece bene, Javier Cercas a dargli retta, perché dopo Soldati di Salamina o Anatomia di un istante, è uno degli autori spagnoli più famosi in trenta lingue del mondo. Cinquantotto anni, dieci romanzi, ha vinto lo scorso anno, con Terra alta, il premio Planeta, il nobel iberomericano. Le sue opere seducono, provocano, indispettiscono, perché il professore di Letteratura ha un’idea forte, quasi militante, del romanzo, oggetto che spinge il lettore non solo a svagarsi ma a porsi domande su se stesso e sul mondo che lo circonda. Stavolta lo fa con gli strumenti del giallo, che parte da un efferato delitto, segue un’indagine con le consuete impasse della procedura penale, e culmina – vietato spifferare alcunché – con un interrogativo quasi euristico sul senso profondo della giustizia che fatica a collimare con il diritto. Cercas, che è nato in un paesino dell’Estremadura, Ibahernando, e vive a Barcellona vicino alla statua di Mercè Rodoreda, scrittrice simbolo di questa terra, diffida della furia indipendentista catalana. Ma Terra alta è pieno d’amore per la Catalogna in cui è ambientato. Sia per i suoi frenetici skyline urbani, sia per i suoi inospitali paesaggi assolati. 
La Terra Alta si trova a un paio d’ore di auto da Barcellona, ma sembra un altro mondo: quali sono le sue caratteristiche? 
«È una provincia piuttosto povera e dimenticata, conosciuta a stento perché durante la guerra civile vi si svolse la Battaglia dell’Ebro, la più cruenta nella storia del mio paese. Io l’ho scoperta quando mi documentavo per Il sovrano delle ombre, il mio penultimo libro, e mi ha affascinato all’istante con i suoi paesaggi da western. Difatti mi piace pensare a Terra Alta come a un western, o piuttosto come a un thriller travestito da western, in cui quel luogo silenzioso, solitario e desolato dialoga con una Barcellona dura, notturna, violenta e postribolare, che è anch’essa importante per il romanzo. Insomma, la Terra Alta è un posto meraviglioso».
Torna di nuovo alla guerra civile: è un evento che segna ancora la vita spagnola, o vive soltanto nella memoria dei vecchi? 
«È passata e non è passata. È passata perché dopo quasi quarant’anni di guerra civile – il franchismo non fu la pace, ma la guerra con altri mezzi – la Spagna è una democrazia in cui convivono pacificamente persone di idee molto diverse; una democrazia imperfetta, come tutte le democrazie, ma una democrazia. Allo stesso tempo, la guerra civile non è passata perché, come scrive Faulkner, il passato non passa mai. O meglio, è una dimensione del presente senza la quale il presente è mutilato». 
La guerra civile fu un grande massacro e occasione di vendette: si può o si potrà farne un bilancio giusto e serio? 
«Tutti i paesi – e le persone – hanno un’eredità buona e una cattiva (in Spagna, la peggiore è la guerra civile). Con l’eredità buona, sappiamo più o meno cosa fare; la domanda è: cosa facciamo con quella cattiva? La nascondiamo? La edulcoriamo? Ci inventiamo un’eredità alternativa, meno sgradevole e più redditizia, come faceva il protagonista de L’impostore? La mia risposta è: bisogna conoscere quell’eredità in tutta la sua complessità e comprenderla. Comprendere non significa giustificare, significa piuttosto munirsi di strumenti per non ripetere gli stessi errori. Altrimenti ha ragione Bernard Shaw quando scrive: "L’unica cosa che si impara dall’esperienza è che non si impara nulla dall’esperienza"».
Un vecchio poliziotto nel romanzo dice che il bene portato all’estremo si trasforma in male: lo pensa anche lei?
«La domanda centrale del romanzo potrebbe essere formulata così: è legittima la vendetta quando la giustizia non ci rende giustizia? Qualunque lettore risponderà di no, ma il mestiere del romanziere consiste nel complicare la vita al lettore, nel mettere in dubbio le sue certezze, ed è ciò che cerco di fare in questo libro. Per il resto, sì, sono d’accordo con il vecchio poliziotto, la giustizia assoluta può trasformarsi nella più assoluta delle ingiustizie».
C’è qualcosa di Cercas in Melchor?
«Molto, anche se la sua biografia e la mia non si assomigliano in nulla (io sono stato molto più fortunato di lui). Il dolore di Melchor è il mio dolore, la sua rabbia è la mia rabbia, perfino il suo odio e la sua ansia di vendetta sono il mio odio e la mia ansia di vendetta. Tutti i romanzi, almeno tutti i buoni romanzi, sono autobiografici; non perché l’autore vi racconti la sua vita, ma perché vi mette, trasfigurate dalla finzione, le cose più profonde che possiede, il meglio e il peggio di sé stesso. In altre parole: così come Flaubert era Emma Bovary, Melchor sono io».
L’indipendentismo catalano provoca discussioni e confusioni tra i poliziotti. Lei che cosa ne pensa? 
«Mi sembra una pessima idea. Invece di separare gli europei, è meglio unirli in uno stato federale in grado di conciliare l’unità politica e la diversità culturale e linguistica. Credo che sia l’unico modo di preservare la pace, la prosperità e la democrazia nel continente. E il nazionalismo, qualunque forma adotti, è incompatibile con tutto questo». 
Cito dal suo romanzo: "Noi catalani come politici non siamo affatto bravi, ma come imprenditori siamo bravissimi". La pensa così anche lei? 
«Lo dice un vecchio imprenditore catalano, e la verità è che la storia gli dà in gran parte ragione. In ogni caso, ciò che dice il personaggio di un romanzo non è quasi mai, come lei sa, ciò che pensa lo scrittore; è lì non per dire verità o menzogne, ma perché ha un senso preciso nel romanzo». 
Altra citazione: "Voi spagnoli siete gente orribile. Passate la vita a fare scelleratezze, una peggiore dell’altra, e alla fine, invece di affrontare da uomini le conseguenze delle vostre azioni, vi prende la paura e chiamate i preti per farvi perdonare e mandare in cielo. Quanta vigliaccheria, cazzo, quanta sfacciataggine!" Che cosa rappresenta la religione nella società spagnola?
«Il cattolicesimo è stato determinante nella storia spagnola, quanto o più che in quella italiana. Sebbene adesso la Spagna sia uno stato laico e la religione sia tornata in gran parte nella sfera privata (che è quella che le corrisponde), il peso della Chiesa in tutti gli ambiti continua a essere importante, o meglio: eccessivo (come accade in Italia, temo)».
In fondo al romanzo ringrazia i poliziotti: che aiuto le hanno dato?
«Mi hanno aiutato moltissimo, specialmente quelli del commissariato della Terra Alta. Non avevo la minima idea dei particolari interni di un’indagine di polizia, e loro me li hanno mostrati (alcuni hanno perfino letto il manoscritto e mi hanno fatto delle osservazioni). Un romanziere deve inventare con conoscenza di causa». 
"I miserabili" hanno un ruolo centrale nel suo giallo: lo considera un romanzo così importante nella storia della letteratura?
«Non è importante per me, lo è per Melchor. Più che importante, è vitale. Quel libro, che lui legge in carcere, quando è soltanto un delinquente precoce con un passato terribile alle spalle, lo rivoluziona dall’interno e gli cambia completamente la vita. È quello che fanno i grandi libri; I miserabili è indubbiamente uno di questi. Devo confessare che quando lo lessi per la prima volta a vent’anni non mi colpì particolarmente. Ma dato che Melchor lo conosce a memoria – perché lo legge e rilegge instancabilmente – ho dovuto praticamente farlo anch’io per raccontare la storia di Melchor. Ed è stato fantastico».
Il confronto con il personaggio di Hugo, l’ispettore Javert, caparbio tutore della legge, pone più in generale il problema della giustizia: è più "giusta" quella del cuore o quella del codice penale?
«Come accennavo prima, il romanzo prospetta il dilemma tra legge formale e legge naturale o, per usare termini di Hugo ne I miserabili, tra legge degli uomini e legge di Dio. Hugo propende per la legge naturale, la legge di Dio; io per nessuna delle due. Non voglio risolvere un problema al lettore, voglio crearglielo. Scrivere un romanzo per me significa formulare un interrogativo complesso senza fornire risposte. O meglio, non risposte chiare, univoche, tassative, bensì ambigue, contraddittorie, sfaccettate, essenzialmente ironiche. In realtà, la risposta è la ricerca stessa di una risposta, la domanda stessa, il libro stesso. 
"La casa di carta" ha cambiato l’immagine del poliziesco spagnolo all’estero. Le piace quella serie tv? 
«Ho cercato di vederla ma mi sono annoiato. Non riuscivo a credere a nulla di ciò che mi raccontavano. Forse non l’ho vista nel momento adatto. In ogni caso, così come non credo nei caratteri nazionali, non credo nel noir nazionale, né nel romanzo nazionale. Come vede, sono un pericoloso miscredente».