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 2020  giugno 27 Sabato calendario

Biografia di Giulio Ferroni raccontata da lui stesso

Gli inconfondibili baffi di Giulio Ferroni fremono al perché di un librone di oltre 1200 pagine dedicato a Dante. Ci pensa su un attimo e poi risponde che Dante è stato il “satellitare” che gli ha consentito di viaggiare in lungo e in largo per l’Italia: Nel paese della Commedia (il libro è stato recentemente pubblicato da La Nave di Teseo). Gli dico che il senso di quella commedia risiede anche nel lasciare emergere l’impareggiabile affresco di vizi che compongono il tratto negativo dell’italiano: cialtronesco, rissoso, un po’ pigro e un po’ corrotto. E che Roma, indolente come una città orientale, e di una grandezza perduta, ne riassume il senso, perfino più di Firenze. «È la città da cui sono partito per questo lungo viaggio e che riconosco attraverso i suoi gesti e le sue storie, sempre diverse ma pur sempre uguali: la Roma di Dante e di Bonifacio VIII, la Roma rinascimentale e poi risorgimentale; la Roma fascista e della resistenza; del neorealismo e della dolce vita, dei funerali di Togliatti e di quelli di Berlinguer. E poi c’è la Roma dei romani e la mia Roma dove sono nato».
Dove esattamente?
«Dalle parti di Porta Pia, quasi sotto le bombe, nel breve periodo tra il 25 luglio e l’8 settembre. Sono rimasto lì, solo con mia madre, mentre mio padre era a Cefalonia e poi, scampato alla strage, in un campo di prigionia in Germania. Lo vidi solo al suo ritorno, quando avevo poco più di due anni».
Che famiglia era la tua?
«Immigrata a Roma dal Lazio. Mio padre, ferroviere, lavorava alla Stazione Termini. Veniva da un ambiente proletario di Rieti. Mia madre da famiglia contadina di Offeio, un piccolo paese della montagna reatina. Suo padre era il falegname del paese, poi emigrato a Roma. La nostra era una famiglia molto cattolica che ha migliorato la propria condizione negli anni del boom e che per la prima volta ha avuto dei figli laureati.
Potevamo comunque viaggiare con minima spesa, grazie ai biglietti che le Ferrovie ci davano gratis».
Secondo te come viaggiava Dante?
«Non ci sono documenti che attestano come viaggiasse. Probabilmente con un mulo, o a cavallo, e i bagagli sul basto di un asino. Preferibilmente non da solo vista la pericolosità degli spostamenti».
Hai scritto un volumone su Dante. Ti senti un dantista?
«Non mi iscrivo tra gli “specialisti”. Oltretutto, ho sempre creduto che di fronte alla letteratura occorre seguire percorsi vari, eterogenei, in un intreccio tra passato e presente, sollecitando le domande che riguardano il nostro stare al mondo. Per me Dante, fin dall’adolescenza, si è identificato con la “poesia”, nella sua tensione a percorrere il mondo. E ho sempre amato la geografia, il che mi ha portato a riconoscere nella letteratura la misura dei luoghi e il movimento nello spazio».
Che Italia Dante aveva in mente?
«Sostanzialmente duplice. Da un lato si trovava di fronte a un universo frantumato tra poteri molteplici e contrastanti, segnato da lacerazioni e odi feroci; dall’altro, risalendo all’immagine antica dell’Italia, quella definita dai romani, la sentiva come un organismo unitario, non certo nazione in senso moderno, ma come insieme di caratteri linguistici, geografici, ambientali, storici, culturali e religiosi. Così l’ha individuata e “costruita” grazie alla sua esperienza e con la sua poesia».
A parte la poesia c’era anche un progetto politico?
«Se un progetto ci fu, si formò nel corso della sua vita, definendosi tra le vicende dell’esilio, che lo portarono fuori dall’orizzonte municipale fiorentino e gli fecero percepire più da vicino le contraddizioni e i legami tra le diverse realtà: il “dolore” che travagliava la “serva Italia”. Una via di salvezza credette di trovare in una restaurazione dell’impero. Fu un progetto astratto e storicamente impossibile ma, da un altro punto di vista, sembrò prefigurare quell’unità dell’Europa, beninteso per lui solo cristiana, che sarebbe stata cercata solo molto più tardi e che non siamo riusciti ancora a realizzare davvero».
Gianfranco Contini definiva Dante un’anomalia e faceva iniziare la letteratura italiana da Petrarca.
«Personalmente tendo a prediligere proprio l’anomalia. Un’anomalia che però ha alimentato tutti gli autori che sono sfuggiti ad un rigido classicismo. Anche Petrarca, del resto, non va identificato con il petrarchismo. Il suo classicismo è infatti segnato e insidiato dall’aspirazione a una sfuggente bellezza, diciamo dal senso della fragilità e dall’incompiutezza della vita».
Quando la nostra storia letteraria ha smesso di essere tale?
«È una domanda complicata, forse la più difficile a cui rispondere».
Hai scritto una Storia della letteratura italiana, ci puoi provare.
«Quando scrivevo questa storia globale, che poi fu pubblicata nel 1991, ho cominciato a capire che qualcosa stava finendo, che la frantumazione, l’opacità, la moltiplicazioni delle voci, le novità tecnologiche che si annunciavano, stavano rendendo impossibile una storia letteraria nazionale concepita secondo un disegno organico».
Questo crollo dell’immagine unitaria della letteratura che conseguenze ha prodotto?
«Intendi su di me o in generale?».
Cominciamo dagli effetti su di te.
«Un effetto di inutilità o meglio di straniamento.
Proprio nei giorni di chiusura del Covid-19 mi è capitato di lavorare a un’edizione corretta e aggiornata di quella Storia. E di farlo nell’atto stesso in cui pensavo in modo nuovo all’impossibilità di quello che stavo facendo».
Spiegati meglio.
«Mi sono interrogato su quella che è l’odierna solitudine del critico. Faccio certe cose e mi accorgo dell’inadeguatezza della mia azione, sento crescere appunto una forma di solitudine. Non ce la faccio a stare dietro al ritmo della velocità crescente e alla quantità di cose che sforna la comunicazione letteraria. Mi appare sempre più difficile interrogare i linguaggi del passato e quelli che percorrono il presente, dal momento che l’inquinamento acustico e informativo ha toccato vette parossistiche. Una società che non sa concepire o dare un limite a questo sviluppo, una società che anzi ostenta il moltiplicarsi infinito dei messaggi è destinata a non riconoscersi più in quello che fa».
Ti sei pentito di aver scelto il lavoro del letterato?
«È la sola cosa che so fare e sarebbe ormai tardi per rinunciarvi o scegliere altre strade. La prima ragione per cui scelsi un mestiere intellettuale si legò alla suggestione del prestigio in cui i libri erano tenuti in certi ambienti proletari e piccolo borghesi, come fu il caso della mia famiglia».
Quali sono state le prime letture?
«All’inizio molti libri per ragazzi, in particolare mi piaceva Jules Verne. In seguito, grazie ai miracolosi libretti della Bur, sai quelli che si presentavano in una veste povera, con la copertina grigia, scoprii Shakespeare, Cervantes, fino a divorare Gogol’e Poe in modo maniacale. Alla mia formazione contribuirono anche i tanti capolavori letterari che la televisione trasmetteva sotto la forma del romanzo sceneggiato».
Chi sono stati i tuoi maestri?
«Negli anni dell’università alla facoltà di lettere e filosofia di Roma insegnavano Giovanni Macchia, Mario Praz, Giacomo Debenedetti, Guido Calogero. Fu una costellazione di intelligenze pressoché unica. Io fui attratto dalla grande vitalità di Walter Binni: per me fu essenziale la tensione personale che percepiva nei suoi autori, nel prediletto Leopardi. Mi sono laureato con lui e con Riccardo Scrivano del quale divenni amico. Altri amici? Alfonso Berardinelli, mio compagno di banco al liceo, Amedeo Quondam, pur tra accordi e dissidi, Franco Cordelli e Mario Perniola, una delle perdite più dolorose per me».
Perniola rilesse il Novecento come l’età del simulacro.
«Seppe indagare con grande acutezza i linguaggi dell’arte contemporanea e la potenza del falso che si sovrappone al vero. Il suo pensiero oggi ci sarebbe di grande utilità».
A proposito di Novecento, qual è il tuo rapporto con la letteratura contemporanea italiana?
«Il Novecento italiano è pieno di presenze e di fratture interne, il cui percorso andrebbe definito in termini nuovi. Lasciando da parte i grandissimi, che hanno cominciato nel secolo precedente — Pascoli, Pirandello, Svevo — sono sempre convinto che Montale e Gadda siano le due presenze davvero assolute, i nostri classici novecenteschi».
Che cosa pensi del Gruppo ’63?
«Ha avuto la funzione di far emergere nuove generazioni e soprattutto di dare spazio ad autori che hanno fiancheggiato la linea della cosiddetta “neoavanguardia”. Penso soprattutto ad Arbasino, Malerba, Manganelli e tra i “nuovissimi” a Pagliarani.
Sanguineti è un caso a sé, va considerato per l’insieme della sua attività intellettuale».
In un tuo libro hai parlato di “letteratura postuma”.
E la parola “postumo” rievoca la grande stagione della Mitteleuropa.
«Certo, la coscienza dell’essere postumi si definisce proprio nell’orizzonte mitteleuropeo, già fin da Nietzsche. L’essere postumo significa che qualcosa è finito, che si sono esauriti tutti i modelli ideologici e culturali che hanno percorso il Novecento. Perciò una letteratura postuma, pur continuando a tenere fede alla forza di esperienza della parola, alla sua continuità con il passato, non può non affrontare il dramma del presente che sfugge. La forma del romanzo non può non interrogarsi sulla sua consunzione. Su ciò che ho chiamato “dopo la fine”, su ciò che sta accadendo dopo la fine dell’ubriacatura liberistica dell’espansione illimitata e indefinita, dopo il consumo cieco delle risorse del pianeta».
Qual è il tuo rapporto con la fine, con le cose che finiscono?
«Ne ho viste tante di cose finire, anche se dal punto di vista storico viviamo permanentemente sotto l’“illusione dell’eterno presente”. Da tanti anni sono ossessionato da come si finisce, da come finiscono le opere della letteratura: vorrei scrivere un libro sui finali, ma non so se ne avrò il tempo o se mi toccherà finire prima io».
E poi ci sono gli anni che passano. Come li vivi?
«Ci penso sempre di più con la netta sensazione di avere sempre meno tempo a disposizione. Penso a quello che potevo fare e non ho fatto, agli errori commessi, alle cose ingiustamente tralasciate, ai colloqui e agli incontri perduti per caso o per pigrizia.
Alle cose che avrei potuto imparare. Chissà. L’elenco è lungo».
Ti ha mai sfiorato la parola fallimento?
«Più che fallimento, la paura di non farcela: spesso quando porto a termine un lavoro, mi viene il dubbio sulla sua validità. So bene che nessuna cosa è perfetta e che il risultato può essere sempre un po’ migliore. Del resto di fronte a un mondo dominato dall’esibizione del proprio Io, dalla presunzione intellettuale di coloro che pensano di saperla lunga, credo nell’insufficienza della parola e della stessa critica letteraria. È un altro modo di parlare della mia solitudine».
Nella solitudine si è tentati da un dialogo con Dio e con i libri sacri.
«Mi dico sempre che se Dio ci fosse non avrebbe permesso la Shoah e tanti altri orrori. I libri sacri sono fondamenti della coscienza umana, forme di originaria coscienza del mondo: spesso capolavori letterari. Ma come si può pensare che un libro possa contenere la definitiva e assoluta verità della condizione e del destino umano?».
Forse alla fine è un questione di fede.
«Vengo da una religione familiare, poi tralasciata quando ho cominciato a prendere coscienza dei limiti insuperabili del nostro essere nella natura. Leopardi in questo mi è stato fondamentale. Ma tengo molto all’eredità storica della religione, in primo luogo del cristianesimo, al suo spessore culturale, alla storia che ha costruito e alla capacità di rinnovamento che ha saputo avere e che ha attraverso il magistero di papa Francesco, straordinario per il modo in cui difende le ragioni dell’umanità e dell’ambiente. Lui è una delle poche grandi novità di questi anni».