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 2020  giugno 27 Sabato calendario

Gli italiani che tradirono i fratelli ebrei

C’è un capitolo della propria storia che gli italiani non vogliono vedere: la collaborazione con i nazisti nella cattura e nello sterminio degli ebrei. Si considerano “brava gente”, ma la verità è un’altra: ora un’iniziativa della Fondazione Museo della Shoah di Roma ha aperto una finestra nel proprio portale online che inizia a far luce su quanto avvenuto. Il progetto infatti, intitolato “I percorsi della Shoah” e curato da Amedeo Osti Guerrazzi, raccoglie in maniera del tutto inedita le sentenze emanate tra il 1945 e il 1947 contro i nostri connazionali che hanno collaborato alla persecuzione antisemita. Scavando negli Archivi di Stato di tutto il Paese, la ricerca ha raccolto fino ad ora circa 150 verdetti, ma si presume che si arriverà sicuramente a 200. Pochi? Questo è quanto si può trovare nelle carte, la punta di un iceberg, ma la percentuale delle catture degli ebrei dovute alle delazioni è altissima: secondo Osti Guerrazzi, per farcene un’idea conviene prendere i numeri di Roma: se la razzia dei tedeschi del 16 ottobre 1943 fermò e deportò verso i campi di sterminio 1022 ebrei, ci sono poi stati altri 750 rastrellati, e di questi almeno 450 additati, traditi, fatti arrestare da italiani. Dunque più della metà di quelli non presi nell’Aktion nazista. E questa è una media che possiamo riferire a tutta la nazione. Una pagina scura, un abisso.
Ma vediamo meglio di che sentenze si tratta. Partiamo dal fatto che dopo l’8 settembre 1943 la Repubblica Sociale Italiana dichiarava gli «appartenenti alla razza ebraica» stranieri e nemici. Il 30 novembre il ministero degli Interni dispose il sequestro dei beni di proprietà degli ebrei e anche il loro arresto e internamento. Già prima i nazisti avevano iniziato a rastrellare e deportare, ricordate il Portico d’Ottavia, poi Genova, la Toscana, Milano. Ma quell’atto ufficiale fascista voleva dire aprire la caccia. I catturati sarebbero stati uccisi (almeno 75 a Roma finirono alle Fosse Ardeatine) o destinati al campo di Fossoli, in Emilia, e di lì a Auschwitz.
La collaborazione tra nazisti e fascisti a partire dal gennaio ’44 si rafforzò su due fronti: i repubblichini arrestavano gli ebrei in maniera autonoma e li consegnavano ai nazisti, oppure gli italiani si mettevano volontariamente a disposizione dei tedeschi spinti fondamentalmente dalla taglia messa sulla testa delle vittime (in media – dice Osti Guerrazzi – 5000 lire per un maschio adulto). Tra loro alcuni militanti repubblichini, ma soprattutto criminali, collaboratori della polizia fascista, e anche una buona dose di cittadini comuni che approfittavano della situazione per mettere dei soldi in tasca senza farsi problemi di sorta, magari rispolverando una certa dose di spirito antisemita che non guasta mai. Ma dopo vedremo meglio.
Fu a partire dal 1945 che lo Stato italiano giudicherà i collaborazionisti creando le Corti Straordinarie di Assise (Cas) per i reati di collaborazione con i tedeschi, una creazione il cui scopo era non lasciare ai tribunali ordinari, pieni di magistrati che avevano loro stessi aderito al regime, il compito di giudicare i fascisti. Un’istituzione necessaria anche per evitare vendette politiche e private che si temevano all’indomani della guerra civile. I processi furono molti, e, se non si hanno dettagli, prendiamo però la cifra fornita da Osti Guerrazzi per il Piemonte: undici Cas svolsero 2.400 procedimenti contro 3.600 persone, di cui 203 condannate a morte, 23 all’ergastolo, 319 a più di 20 anni di carcere, 853 tra i 5 e i 20 anni di prigione. In Italia complessivamente i rinviati a giudizio furono 21.454, e il 27,6% subì una condanna di qualche ordine. Una resa dei conti presto stoppata dall’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946 che cancellava nei fatti tutti i reati politici compiuti durante la guerra, e naturalmente anche quelli dei collaborazionisti. Unico modo per continuare a giudicare i reati dei delatori fu processarli per colpe non previste dall’amnistia, e dunque reati comuni, furti, saccheggi, sequestri di persone, estorsione, percosse..., omicidi no, i tribunali italiani non vollero mai processare i delatori per concorso in omicidio, anche se quasi sempre gli ebrei consegnati ai nazisti finirono uccisi.
Muoversi tra le settanta sentenze pubblicate non è facile, il linguaggio come potete immaginare è ostico. I criminali giudicati sono i più diversi. Ad esempio c’è un certo Paolo F., una guida italiana di origine svizzera: fu grazie a questo suo lavoro che conobbe e volle tradire decine di “ricordari”, i venditori ambulanti di ricordini per turisti, ebrei romani che continuavano a lavorare nonostante la guerra. Ne fece prendere ben 24. Un’altra figura è quella di Nella G., una ragazza fiorentina che lavorava come dattilografa in un ospedale dove gli ebrei erano nascosti sotto falso nome: lei ne scoprì l’identità e li denunciò in cambio di denaro. Oppure Leonardo L., fingendo di voler comprare alcuni gioielli, individuò l’abitazione della famiglia Di Consiglio e vi portò i tedeschi: i maschi finirono alle Fosse Ardeatine, le donne nei campi di sterminio. G.G. a Varese costruì una mini organizzazione che fingeva di aiutare gli ebrei a scappare in Svizzera e poi invece li bloccava a metà strada facendoli arrestare dalla polizia nazifascista. Peggio ancora Giuseppe Mittermair, guardia al campo di concentramento di Bolzano: si distinse per le sevizie che infliggeva ai detenuti ebrei «con una completa adesione ai più spietati metodi della Germania nazista».
C’erano anche gruppi specializzati nella persecuzione antiebraica tra i soggetti processati. Più noto di tutti forse Giovanni Cialli Mezzaroma, ex spia della polizia politica fascista, sottolinea Osti Guerrazzi: lui organizzò una banda agli ordini di Herbert Kappler, coadiuvata anche dalla giovane ebrea Celeste Di Porto. Tra i tanti misfatti che fecero, nella notte tra il 23 e il 24 marzo 1944, dopo via Rasella, il gruppo fermò una dozzina di ebrei consegnati poi a Kappler e uccisi alle Fosse Ardeatine. Molti di questi crimini vennero considerati delitti politici e dunque amnistiati, considera tristemente Osti Guerrazzi. E la persecuzione razziale non fu giudicata un delitto.