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 2020  giugno 26 Venerdì calendario

Storia della libertà di stampa e della censura

Il 14 novembre 1587 il «menante» Annibale Cappello fu condannato per aver divulgato il «falso… di persone d’ogni sorte» nello Stato Pontificio. Era proprio così: il «menante», o amanuense, tramite manoscritti aveva reso note alla pubblica opinione trame politiche e militari, intrighi, feste e matrimoni della città papalina. A Cappello furono mozzate le mani e le orecchie e poi fu mandato al patibolo. Non fu l’unico segugio della carta che fece una brutta fine. Nel 1501 papa Alessandro VI aveva condannato le opere considerate «contrarie alla santa religione cristiana». Nella Città eterna, e anche in Francia, in Spagna, in Inghilterra e in altri Paesi europei, venne istituita la censura preventiva. In tutta Europa si attivò il contrasto al gazzettiere che metteva a repentaglio con informazioni non gradite (ricavate da una lettera, da un servitore indiscreto, da una frase colta al volo) l’autorità costituita. 
A compiere un lungo e originale excursus sul tema La libertà di stampa. Dal XVI secolo a oggi (Il Mulino, pp. 240, € 15) è il giornalista e studioso Pierluigi Allotti che ha scelto come proprio livre de chevet un volumetto del 1925 di Mario Borsa. Azionista, antifascista, direttore del Corriere della Sera dal 1945 al 1946, Borsa teorizza che per «libertà di stampa» si debba intendere «assoluta indipendenza dagli uomini di governo». A partire da questo assunto Allotti costruisce la storia delle persecuzioni con cui il potere ha cercato di scrollarsi di dosso scrittori e giornalisti, fastidiosi parassiti dell’informazione. 
Nel 1630, in Inghilterra, ad Alexander Leighton, reo di aver confezionato un pamphlet in cui definiva anticristiana e satanica la gerarchia anglicana, vennero mozzati un orecchio e il naso e impresse a fuoco sul volto le lettere S.S. («sower of sedition»). Analogo trattamento toccò in quegli stessi anni a William Prynne, che in un libello polemizzava con il teatro (e con la monarchia), e a Henry Burton e a John Bastwick che avevano attaccato la Chiesa. Anche in Francia quelli che andavano controcorrente non se la passavano bene: gli autori di un poema offensivo nei confronti del re Luigi XV finirono prigionieri nella Bastiglia, mentre si dava la caccia agli scrittori anonimi di biografie di nobili e di reali contenenti pettegolezzi scabrosi.
A por fine all’eccidio dei cronisti, dei gossippari nonché dei precursori dei moderni inviati speciali furono le dure prese di posizione di intellettuali, pensatori e poeti, come John Milton, John Locke e Alexis de Tocqueville, che si schierarono in difesa della libertà di coscienza e di scrittura. Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu affermava esplicitamente che «per godere della libertà, bisogna che ciascuno possa dire ciò che pensa e, per conservarla, bisogna ancora che ciascuno possa dire ciò che pensa». 
Dopo tante battaglie, nel 1695, in Inghilterra, Francia e Stati Uniti si assunse come paradigma della comunicazione il principio della libertà di stampa. Che nel Regno sabaudo fu disciplinato dall’editto di Carlo Alberto del 1848 in cui si riconosceva a «qualunque suddito del Re il quale sia di maggiore età e goda del libero esercizio dei diritti civili… la facoltà di pubblicare un giornale o scritto periodico».
Per Allotti il periodo aureo del giornalismo in Italia è stata l’età giolittiana, grazie alle direzioni illuminate di Luigi Albertini, Alfredo Frassati e Alberto Bergamini, al timone rispettivamente del Corriere della Sera, della Stampa e del Giornale d’Italia. Ma intanto si affacciavano all’orizzonte le nuove censure originate dalla Prima guerra mondiale, dai regimi totalitari, comunismo, fascismo e nazismo. Con il secondo dopoguerra il lungo viaggio dei giornalisti verso la libertà è approdato a un punto fermo? Per nulla. La libera informazione sta attraversando la crisi più profonda proprio in questi ultimi anni, non solo in Italia ma in tutto il globo. «A minare la credibilità sono le nuove tecnologie»: Google e Facebook sono veicoli di disinformazione. 
A delegittimare l’operato di cronisti e di cacciatori di notizie è poi l’incremento delle cause per diffamazione che tolgono autonomia e spingono all’autocensura. A questo si aggiungono gli eccidi. Nel dicembre 2018 Time ha celebrato i «giornalisti custodi della verità», dal saudita Jamal Khashoggi, assassinato all’interno del consolato del suo Paese a Istanbul, ai cinque reporter della Capital Gazette di Annapolis, in Maryland, uccisi il 28 giugno 2018 in redazione. E l’elenco potrebbe continuare. 
Ancor più preoccupante, secondo Arthur Sulzberger, ex editore del New York Times e presidente della New York Times Company, è che «queste brutali repressioni sono passivamente accettate e forse tacitamente incoraggiate dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump che ha decretato la rinuncia del nostro Paese al ruolo storico di difensore della stampa libera». Un giornalismo che insomma a livello mondiale procede con il passo del gambero.