la Repubblica, 26 giugno 2020
Le risate con papà Gassman
Lo facevo ridere. Mi dicono che ho un tipo di humour simile a quello di mio padre: mi piace sdrammatizzare, sono cinico, caustico a volte. Papà era spesso e volentieri circondato da persone che – non intenzionalmente – diventavano leccaculo; avere vicino qualcuno che lo prendeva in giro gli piaceva. Era un uomo che poteva intimorire, ma io vedevo il suo aspetto ridicolo, l’incapacità di vivere come una persona normale. Quando andava al ristorante lasciava mance pazzesche, il cameriere pensava che si fosse sbagliato. Il conto era 50mila lire? Lui ne lasciava 20mila di mancia, non cinquemila. A chi glielo faceva notare, dava sempre la stessa risposta: “Lasci stare che non riesco più a controllare la mia ricchezza”. Agiva così perché sentiva la necessità di sminuire tutto, si intimidiva per il gesto e per la reazione. Era una battuta “in stile Gassman”, metteva in atto un meccanismo perché in realtà era fragile. Il personaggio che si era costruito era quello dei film di Risi, di Monicelli, di Scola: nella vita si nascondeva dietro quei personaggi, un po’ cugini fra loro nei colori e nei modi, per mascherare la timidezza. Si presentava così prima che qualcuno potesse andare a toccare il lato delicato, fragile, che si sarebbe rivelato nell’ultima parte della sua esistenza.
Non so se sia stato difficile essere figlio di Vittorio Gassman. Dico sempre che non avendo sperimentato altri padri, è stata la mia normalità. Era divertente anche se severo. Ero un pessimo studente, recuperavo un po’ perché ero abile: un po’ per non farlo soffrire – e per non soffrire – alla fine mi arrangiavo. Mi rimandavano e provavo a intortarlo: “Però quel professore, papà”, inventavo. Lui mi guardava: “Alessandro, studia”. Sono capitato nel periodo della sua vita in cui era più adatto a fare il padre, c’erano già Paola e Vittoria, nata dalla relazione con Shelley Winters, che era rimasta negli Stati Uniti. Papà, malgrado avesse avuto quattro figli avuto da quattro donne diverse, ha sempre mantenuto il rapporto. Dopo le mie sorelle sono nato io, poi Jacopo. Con me era esplosivo, ho anche avuto la fortuna di lavorare con lui, di supportarlo, abbiamo riso tanto insieme. Mi faceva sorridere la sua goffaggine, l’incapacità di destreggiarsi nella vita quotidiana. Era un uomo molto dolce, chiuso, che si vergognava di far vedere il vero Vittorio e costruiva il personaggio. Il 29 giugno del 2000 fu una giornata drammaticamente indimenticabile, con aspetti da commedia su cui anche papà avrebbe scherzato. Diletta mi chiama, prendo il motorino e corro a casa loro in via Brunetti. Trovo lei, Jacopo, quelli delle pompe funebri e Nadia Cassini – non so se abitasse nel palazzo, non l’ho mai ricostruito – che piangeva più di Diletta. Quelli dell’agenzia parlano del morto senza nessun afflato: dove lo mettiamo, arriva gente, capite, serve il fresco. Poi arrivano Emanuele e Paola. Con papà ci eravamo salutati la sera prima, stava male ma non peggio del solito, aveva problemi polmonari. Tutti distrutti. C’era la semifinale degli Europei di calcio, a un certo punto diciamo tra noi: gioca l’Italia. Comincia una pioggia estiva tropicale, impressionante, Totti fa gol tirando il rigore col famoso “cucchiaio”. Una volta ho incontrato il capitano e gliel’ho detto: “In una delle giornate più brutte della mia vita, per un secondo, mi hai fatto dimenticare quello che stavo vivendo”. Anche papà avrebbe apprezzato quel gol.
Non è facile parlare della morte, ma uno dei più cari amici di mio padre, lo sceneggiatore Sergio Amidei, ci scherzava: “Solo gli stronzi muoiono”. Con lui, papà e Gina Lollobrigida, avrò avuto tredici anni, andammo al Festival del cinema di Mosca. Ci ospitarono in un hotel grande come un quartiere di Roma. Mi chiamano in camera, era Gina: “Ma il tuo papà dov’è? Perché non riesco a trovare l’uscita”. E non siamo riusciti a trovarla, una scena surreale: io bambino con la Lollobrigida che vagavamo nei corridoi. Finalmente usciamo e ci portano in un ristorante caucasico, sottofondo di balalaika, facevano la pizza alla paprika. “Vittorio troviamo una pizzicheria, compriamo qualcosa per il ragazzo” dice Amidei, scettico sul condimento. File di un chilometro, signore col foulard in testa: Sergio sorride, entra rapido come se niente fosse: “Salve, mi dà la caciottina, l’altro formaggio. Grazie mille”. “Bene, ho pagato: forza, veloci andiamo”, fa a papà che rideva.
Ho passato la vita a ridere e a spaventarmi insieme a lui da bambino. Ricordo quando andammo a New York a trovare Carletto Mazzarella, altro grande amico suo. Doveva venirci a prendere in aeroporto, invece si presentano due guardie del corpo gigantesche. Non capivamo: Carletto aveva detto qualcosa su un boss mafioso e temeva ritorsioni nei confronti dell’amico italiano, così aveva deciso che dovevamo avere la scorta... Papà lo mandò a quel paese.
Abbiamo riso tanto, la leggerezza è una delle cose che Flaiano, amico e maestro di vita, aveva insegnato a lui, a Fellini e a Sordi nelle chiacchierate a Via Veneto. In quegli incontri c’era già l’importanza della gentilezza: mai superficialità ma leggerezza intelligente, che è fondamentale. Con l’avanzare dell’età e della depressione, non dico di aver preso in mano la vita di mio padre, ma alcune decisioni importanti sì. Durante la tournée di Camper al Teatro Nuovo di Milano, non stava bene. Lo vedo debilitato, dimagrito, non mangia. Mi consulto con mia moglie Sabrina, in scena con noi. Poi decido, gli parlo: “Penso che tu debba fermarti, papà”. L’atto più coraggioso della mia vita. Accetta. Quella pausa gli regalò qualche altro anno felice, prima che lo inghiottisse la depressione.
(testo raccolto da Silvia Fumarola)