la Repubblica, 26 giugno 2020
Nella Silicon Valley più forte del virus
Il ritorno nella Silicon Valley dopo cento giorni di lockdown inizia con uno spettacolo tipico della nuova normalità da pandemia. L’aeroporto di San Francisco semivuoto, spettrale. Unico scalo d’America dove arrivavano voli quotidiani nonstop da Wuhan e centinaia di altri da tutta l’Asia-Pacifico, oggi ospita solo tre aerei stranieri sul tarmac: rispettivamente da Nuova Zelanda, Corea del Sud, Taiwan. Insolito anche il traffico scarso e scorrevole lungo le autostrade 101 e 280, le arterie gemelle che collegano i due poli della regione tecnologica, San Francisco e San Jose.
Ma qualcosa cambia allo svincolo della statale 92 che punta verso il mare. Ritrovo il traffico dei bei tempi andati, code di auto a passo d’uomo. È la strada delle winery di San Mateo County, piccola valle del vino che compete con Napa e Sonoma: è tornata la folla dei tour organizzati nei vigneti- enoteche per intenditori dai portafogli ben dotati. Pienone all’hotel di lusso Ritz- Carlton di Half Moon Bay, con resort di golf. I surfisti sono tornati in massa sulle spiagge di Santa Cruz, rigorosamente senza mascherina. Ritornando sull’autostrada 17 verso il cuore della Silicon Valley, ecco Los Gatos: dove ha sede Netflix e dove abita uno dei pionieri italiani dell’era tecnologica, lo scienziato Federico Faggin che inventò uno dei primi microchip di Intel. A Los Gatos incontro Daniele, amico cameriere raggiante, che al ristorante greco Dio Deka ha appena incassato una mancia da 700 dollari. Generosità da sceicco da parte del dirigente di una start-up, felice per la riapertura. Più a Nord, a Marin County sopra San Francisco, il chirurgo plastico italo-americano Tancredi D’Amore mi conferma che la clientela è tornata ai livelli pre-Covid. Benvenuti nell’America che ha vinto il Jackpot del coronavirus: mentre il resto della nazione soffre della duplice pandemia, sanitaria ed economica, qui è tornata l’opulenza delle stagioni migliori. La crisi ha esaltato le risorse della Silicon Valley, ha premiato la sua capacità innovativa: non è che Big Tech avesse previsto il Covid-19, ma aveva già pronte le tecnologie per sopravvivere lavorando da casa, facendo la spesa da casa, studiando da casa.
I cento segnali di successo economico che osservo in questo viaggio sono confermati dai macro-indicatori. Dall’inizio dell’anno la Borsa dei titoli tecnologici Nasdaq ha guadagnato più del 10% mentre il listino Dow Jones che rappresenta l’economia tradizionale ha perso il 10%. La forbice tra i due è ai massimi dal 1983, quando quasi nessuno usava il termine Silicon Valley. Se ai tre colossi locali di Big Tech (Alphabet-Google, Apple, Facebook) si aggiungono le cugine della West Coast settentrionale (Amazon e Microsoft) si ha il perimetro geoeconomico del nuovo capitalismo trionfante rafforzato da questa crisi. Amazon ha segnato +50% di valore azionario e ha assunto 175.000 nuovi dipendenti in due mesi. Insieme questi giganti digitali hanno un tesoro da oltre mezzo trilione, per la precisione 550 miliardi di cash, che spendono in una folla corsa alle nuove acquisizioni mondiali, dall’India all’Africa (Facebook sta circondando il continente nero di fibre ottiche), dal cloud computing all’intelligenza artificiale, più biotecnologie e ricerca medica. Dice il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg: «Nella crisi vince chi investe sul futuro». Proprio come accadde durante la Grande Depressione degli Anni ’30, quando Rca puntò sul social media del futuro: la tv. Google e Facebook nacquero mentre la Silicon Valley sembrava un cumulo di macerie, dopo il crac del Nasdaq del 2000.
Non ci sono solo i magnifici cinque, i big dell’oligopolio digitale. La Silicon Valley pullula di storie di successo “minori”, fondamentali per capire la sua nuova ricchezza. A San Jose c’è la Zoom fondata dal cinese Eric Yuan, la più popolare fra le piattaforme digitali per videoconferenze, plebiscitata dalle aziende e dalle università per l’insegnamento a distanza. A Newark (Alameda) c’è la Logitech già presieduta dall’italiano Guerrino de Luca, che ha visto esplodere nel mondo la domanda per le sue webcam multi-uso: tutti vogliono video di qualità per lo smartworking. La Netflix di Los Gatos ha tratto il massimo beneficio dalla chiusura dei cinema; si fa fatica a ricordare che questa regina mondiale del videostreaming, oggi attivissima nella produzione di film e serie tv, fu sull’orlo del fallimento quando spediva dvd a domicilio agli abbonati. Cento giorni di lockdown, smartworking, corsi scolastici online, spesa a distanza, hanno ingigantito i bisogni collettivi di tecnologie che la Silicon Valley aveva già pronte. Ora i proprietari incassano. Ed elargiscono un po’ del loro benessere a camerieri, maestre di yoga, cultori dell’agricoltura biologica. La società signorile di massa, con tanti servi che dipendono dal trickle down degli straricchi, fu teorizzata da un certo Ronald Reagan quando era governatore della California negli Anni ’70. Oggi un altro presidente repubblicano ha un rapporto ambivalente con questo mondo. Donald Trump minaccia castighi a Twitter perché lo censura e priva la Silicon Valley di talenti stranieri qualificati con la stretta sui visti. Ma difende Big Tech contro la digital tax degli europei. Il tesoro per adesso è al sicuro.