ItaliaOggi, 25 giugno 2020
Solo tre cappellai in Germania
Non ho mai portato un cappello in vita mia. Solo un berretto di lana per obbedire a mia moglie quando a Berlino finiamo sotto zero. Ma mi piacciono in testa agli altri. Le coppole dei miei compaesani siciliani, così simili a quelli degli operai inglesi, quelle che sfoggia Andy Capp, l’eroe proletario dei fumetti, quando va al pub. Il Panama o il Borsalino amato dai gentiluomini e anche dai gangster, ignoro il perché. «Borsalino» è il titolo di un film con Alain Delon (1970), tratto dal romanzo Banditi a Marsiglia. Quando abitavo a Amburgo stavo per cadere nella tentazione di comprarmi il berretto da marinaio anseatico, quello che sfoggiava l’amburghese Helmut Schmidt, il cancelliere socialdemocratico. Mi ha fermato il senso del ridicolo.
Le bombette e i cilindri fanno parte della storia. Appunto, e ora i cappellai sono in crisi. La Borsalino tenta di risorgere dopo il fallimento e la chiusura. Se su Google cercate Hut, cappello in tedesco, trovate subito Pizza Hut, la catena americana che spaccia una lontana imitazione delle nostre margherite.
Un motivo è che pochi uomini al volante portano il cappello, spiegano gli ultimi cappellai. Erano 56 in Germania alla fine della guerra, oggi sono rimasti appena in tre. La Mayser di Lindenberg, in Baviera, è la più grande, mille dipendenti, e 88 milioni di fatturato, e sostiene di essere la più antica, nata nel 1800, vanto contestato dal concorrente Hans Theodor Wegener, di Lauterbach in Assia. Ma hanno entrambi torto.
È l’azienda di Thomas Braun la più antica. Thomas porta tatuato sull’avambraccio sinistro un cappello a cilindro e «1598», la data di nascita della sua fabbrica di cappelli, che sta dunque per compiere 422 anni. Soprattutto, Thomas è l’ultimo artigiano che lavora in proprio: è un nano rispetto alla concorrenza, produce in media appena una trentina di cappelli al giorno, ma mantiene il contatto con la clientela, e da lui si può ottenere il cappello desiderato su misura.
Thomas ha appena 30 anni, quindi può garantire che l’arte del cappellaio sopravviverà ancora per alcuni decenni. Dal 2004 in Germania non vengono più addestrati apprendisti cappellai. Rimangono solo le modiste per i cappelli da donna, ma l’anno scorso le ragazze che hanno voluto imparare il mestiere erano appena nove. Anche le signore non portano più cappellini, tranne in Inghilterra alle corse dei cavalli, per imitare la regina Elisabetta. «L’abbiamo fatto studiare e mandato un po’ in giro per il mondo» ha spiegato la madre Gisela, 56 anni «così che da grande non pensasse di essere stato obbligato a seguire la tradizione di famiglia».
Le macchine per fare i cappelli sono tutte Made in Italy, Thomas riconosce che siamo sempre la «terra dei cappelli», ma il tocco finale viene eseguito a mano: per un cappello occorrono tre giorni di lavoro, e ciò spiega il prezzo. Braun è più caro della concorrenza, ma si difende: «È come confrontare un abito su misura tagliato e cucito da un sarto, con la giacca comprata in negozio».