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 2020  giugno 25 Giovedì calendario

Inutile svilire tutto a una disputa tra epidemiologi

Mi continua a sorprendere, dall’inizio dell’epidemia, l’atteggiamento che l’Italia ha avuto, e continua ad avere, verso gli altri Paesi. Un atteggiamento che mi colpisce non tanto per le autorassicurazioni e autocelebrazioni dei politici (abbiamo fatto tutto benissimo), cui del resto siamo abituati, ma per la nostra scarsa volontà di confrontarci davvero con gli altri Paesi. 
Ascoltiamo ogni sera con trepidazione le cifre nazionali dell’epidemia fornite dalla Protezione Civile, sbirciamo qualche volta le situazioni locali, specie il dramma della Lombardia, ma di quel che accade all’estero sembra importarci poco. O meglio: quel che sembra interessare dell’epidemia negli altri Paesi è solo ciò che possiamo usare per alimentare le nostre controversie, ora a sostegno della linea dura (lockdown, tamponi di massa) ora a sostegno della linea morbida (ripartenza, riapertura).
E invece varrebbe la pena guardare all’estero per meglio capire che cosa è successo qui da noi, e magari trarre giovamento dall’esperienza altrui. Ora che l’epidemia è in una fase molto avanzata, e quasi ovunque è in regresso, possiamo individuare alcuni punti fermi, e porre qualche interrogativo.
Il primo punto fermo è che, fra i Paesi avanzati (che sono una trentina) tre hanno subito una catastrofe sanitaria peggiore di quella italiana. Questi sono il Belgio, la Spagna e il Regno Unito. Fra i grandi Paesi, tolti appunto la Spagna e il Regno Unito, gli altri se la sono cavata meglio dell’Italia: a 60 giorni dall’inizio dell’epidemia, l’Italia contava 50 morti ogni 100 mila abitanti, la Francia 43, gli Stati Uniti 30, il Canada 21, la Germania 10, la Turchia meno di 6. Quanto agli Stati minori, se si eccettua il Belgio, tutti hanno retto meglio.
Secondo punto fermo. Se guardiamo all’andamento dei morti nell’ultima settimana, dobbiamo constatare che in oltre la metà dei Paesi avanzati l’epidemia è sostanzialmente finita, mentre negli altri, fra cui l’Italia, è ancora piuttosto lontana dall’esaurimento. È vero – per fortuna – che la temperatura dell’epidemia in Italia è in costante calo, ma sta di fatto che attualmente solo cinque Paesi (fra cui Regno Unito e Stati Uniti) hanno più morti giornalieri per abitante di noi. Detto altrimenti, è vero che la curva epidemica sta scendendo, ma lo fa ad un ritmo estremamente lento. La caratteristica essenziale del caso italiano è la asimmetria della curva, che mostra un profilo estremamente ripido nella fase ascendente (fino al picco di fine marzo), ma estremamente dolce nella fase discendente. Non è una caratteristica esclusiva dell’Italia, ma viene da chiedersi come mai in tanti Paesi, che pure sono stati investiti dall’epidemia più tardi di noi, il picco è stato molto più basso, e la curva è oggi molto più vicina a zero della nostra.
C’è poi il caso molto interessante della Grecia, un Paese mediterraneo dell’Unione Europea, che ci fa riflettere: come mai l’epidemia si è quasi del tutto spenta in meno di tre mesi, e il suo picco è stato circa 25 volte più basso?
In parte le ragioni di questa poco invidiabile specificità del caso italiano sono note, e vengono negate solo dai nostri governanti e dagli osservatori più faziosi. La più importante fra tali ragioni è che l’Italia ha atteso troppo sulle zone rosse (Nembro e Alzano) e sul lockdown e, anche quando si è decisa a prendere le misure più drastiche, per un lunghissimo periodo ha scoraggiato i tamponi. Questa scelta è stata particolarmente infelice, perché non solo è costata migliaia di morti, ma ha avuto anche un costo economico considerevole (più si ritarda la chiusura, e più tempo ci vuole per spegnere l’epidemia). 
Voglio dire che, mentre al punto a cui siamo oggi le scelte della politica sono davvero tragiche, dovendo proteggere due beni incommensurabili (salvare vite umane o salvare l’economia), allora non lo erano affatto: una chiusura tempestiva, accompagnata da una politica dei tamponi opposta a quella che venne allora scelta e ostinatamente praticata, avrebbe limitato sia i morti sia le perdite economiche.
In parte, tuttavia, le ragioni della specificità del caso italiano non sono affatto chiare. Non è chiaro, ad esempio, perché in un Paese come la Grecia l’epidemia sia stata così blanda. Non è chiaro perché, anche in Paesi che non hanno attuato politiche ultra-restrittive, la curva epidemica sia risultata molto più bassa, e la durata dell’epidemia molto più breve. Non è chiaro perché il tracciato delle curve epidemiche sia così diverso da Paese a Paese, anche restando nel recinto dei Paesi avanzati.
Possono sembrare curiosità da studiosi, ma la politica e le autorità sanitarie farebbero bene, forse, a non snobbarle troppo. Se l’epidemia dovesse ripartire a breve (come è lecito temere, almeno in alcuni territori), o nell’autunno dovesse abbattersi su di noi una seconda ondata, aver capito come hanno fatto altri Stati a schivare il colpo del Covid, o quantomeno ad attenuarne l’impatto, potrebbe risultare utile. Molto utile. 
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