Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2020
La Libia ha un nuovo dominus, Erdogan
La Libia non è più dei libici. Che abitino a Tripoli, oppure a Bengasi, non sembrano più padroni del loro destino. Dopo i tardivi, maldestri e disordinati tentativi dei Paesi europei per divenire dei credibili mediatori ed avviare un genuino dialogo di riconciliazione nazionale finalizzato alla stabilizzazione, la situazione è precipitata. A forgiare il futuro dell’ex regno di Muhammar Gheddafi ci sono ormai agguerrite potenze regionali (e non solo), decise a consolidare le loro rispettive sfere di influenza. Con la speranza di approfittare del grande tesoro energetico. In parte ancora inesplorato.
A quasi nove anni dalla caduta del regime, in questo Trono di spade nordafricano sembra aver prevalso l’ultimo attore entrato in gioco: il presidente turo Recep Tayyip Erdogan. Temendo che il governo di Accordo nazionale (Gna), guidato dal premier Fayyez al-Serraj capitolasse sotto i colpi dell’artiglieria di Kahlifa Haftar, il generale padrone della Cirenaica che alla fine dello scorso anno aveva conquistato quasi tutta la Libia, il governo di Ankara aveva inviato a fine anno mezzi militari, droni all’avanguardia e migliaia di miliziani (turcomanni e salafiti) che avevano combattuto sul fronte siriano. Le cose sono andate meglio del previsto. L’assedio è stato rotto, e le forze del generale Haftar, sostenuto militarmente da Egitto, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita, oltreché da più di mille contractors “privati” russi, sono state costrette ad arretrare di quasi 500 km ripiegando sulla strategica città di Sirte, un tempo nota per essere la roccaforte dei gheddafiani.
Insomma, se l’obiettivo turco era di mantenere in piedi il Gna, Esecutivo sostenuto dalla Comunità internazionale ma in cui militano membri dei Fratelli musulmani, rompere l’assedio e mettere Serraj in una condizione di parità negoziale con Haftar, le cose sono andate oltre le aspettative.
Il fatto che Erdogan abbia respinto l’accordo di cessate il fuoco offerto dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, principale sponsor di Haftar, suggerisce che il presidente turco miri più in alto. Anche se è consapevole di non poter osare troppo. Il rischio è che il suolo della martoriata Libia si trasformi in una nuova guerra per procura. Per l’Egitto, infatti, Kufra e Sirte, le due città ancora in mano all’Esercito nazionale libico di Khalifa Haftar, rappresentano per una “linea rossa”, invalicabile. Durante una visita ad una base militare aerea Il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha avvertito: «Siate pronti a condurre qualsiasi missione, qui, all’interno dei nostri confini, o, se necessario, all’esterno».
Le opzioni sono davvero poche: una confronto militare in Libia tra due potenze straniere oppure una nuova spartizione del Paese, con il rischio di non rivedere più i libici riuniti sotto la stessa bandiera. Proprio il contrario di quello a cui puntavano le Nazioni Unite ed i Paesi europei, Italia in testa.
In questa situazione esplosiva si è aggiunta la nuova disputa tra Francia e Turchia. La scorsa settimana poco mancava che scoppiasse una battaglia navale quando la marina francese ha intercettato nel Mediterraneo una nave turca mentre scortava un’altra nave che trasportava un carico di armi diretto a Tripoli. Parigi ha urlato alla palese violazione dell’embargo sulle armi in Libia. «La Turchia sta giocando una partita pericolosa», ha tuonato il presidente francese Emmanuel Macron. «Il gioco pericoloso stando col golpista Haftar e creando il caos», ha ribattuto Erdogan.
L’Europa ha ora un timore, fondato. Che la Turchia sia arrivata in Libia per restarvi. La sua presenza sembra destinata a crescere. Circolano già voci che Ankara intenda candidarsi ad addestrare il futuro esercito del Gna, e che stia già pianificando esercitazioni navali al largo delle coste libiche. Operazioni che Parigi vede come il fumo negli occhi.
Ma non si tratta solo di affari militari. La scorsa settimana una nutrita delegazione turca di alto livello, tra cui figuravano il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu e il ministro delle Finanze, nonché genero di Erdogan, Berat Albayrak, sono volati alla volta di Tripoli per incontrare Fayez al Serraj. In quell’occasione sarebbero stati affrontati più temi. Quelli che sicuramente possono dar fastidio ai Paesi europei sono una maggiore cooperazione in materia di sicurezza, di investimenti, di infrastrutture ed anche di petrolio. Ma non solo. I consiglieri turchi avrebbero anche offerto il loro aiuto nella ricostruzione del sistema bancario libico, un punto nevralgico. A quest’offerta se ne sarebbero aggiunte altre: le compagnie turche si sono infatti candidate ad assistere quelle libiche nelle esplorazioni petrolifere, e quelle navali per trasportare il greggio libico in giro per il mondo.
Decisivi anche i grandi contratti legati al settore immobiliare. Prima della rivolta contro Gheddafi 25mila operai turchi stavano lavorando ad una serie di enormi progetti di edilizia popolare. Non è un segreto che Ankara punti a rivitalizzare progetti di costruzione dal valore di 25 miliardi di dollari. Illudersi ora che la Turchia, dietro qualche pressione internazionale, sia disponibile ad abbandonare l’ex regno di Muhammar Gheddafi, è da ingenui. Il timore che voglia trasformare la Libia sul modello della Somalia, una sorta di protettorato, non è infondato. Ora la visita del ministro italiano degli Esteri, Luigi Di Maio, volta a rinsaldare l’accordo sulla migrazione con la controparte libica, può essere interpretato anche con una diversa chiave di lettura: impedire che lo strategico dossier migrazione cada nelle mani dei turchi, che già controllano il corridoio balcanico. Sarebbe una pericolosissima arma di ricatto.