la Repubblica, 25 giugno 2020
Una vecchia intervista a Lucio Dalla
Non credevo di arrivare oltre i quarant’anni» mi disse Lucio Dalla col suo fare appassionato ed eccentrico in un’intervista del 2007, «ho vissuto dieci anni, tra i sedici e i ventisei, convinto di avere il tetano e una sera sì e una no, chiamavo l’ambulanza, mi chiamavano "quello del tetano". In realtà non ho mai progettato nulla del futuro, non sapevo neanche che avrei cantato, se mai avevo un sogno era fare il bidello del liceo dov’ero perché vendeva dei panini alla mortadella talmente buoni che mi sembrava una forma di potere quasi kafkiano. Poi a quindici anni mi ritrovai a suonare con Chet Baker».
Anche quando raccontava, Lucio era uno spettacolo, aveva fama di grande bugiardo e spesso le sue storie, soprattutto quelle che riguardavano la sua vita, sembravano inventate, troppo belle per essere vere, talmente belle da volerci credere, comunque. La parte più sincera veniva fuori quando parlava delle sue canzoni, come successe nel 1980 quando gli chiesi di raccontare il suo disco più bello, quello che portava nel titolo semplicemente il suo cognome e in copertina la celebre foto con il berretto di lana e gli occhiali che diventò da quel momento il suo inconfondibile marchio.
Settembre 1980, interno giorno. Siamo nella casa che Lucio aveva comprato l’anno prima al numero 7 di vicolo del Buco a Trastevere, accolto da una Roma che in quel periodo splendeva del fuoco delle estati inventate da Renato Nicolini e che lui aveva racchiuso in una canzone che faceva parte di quel disco e che ascoltammo insieme quel giorno. Era La sera dei miracoli .
«Una sera ce ne andammo in giro e rimasi impressionato, succedevano cose dappertutto, Roma sembrava incendiata di canti e danze, di gente ubriaca, ma ubriaca bene, mi arrivò addosso il furore bello della festa collettiva, allora tornai a casa, mi misi al pianoforte ed è uscita la canzone, con questa immagine della città che è come una nave che parte e si muove portandosi dietro le piazze, le strade e la gente nei bar».
C’è una canzone che può essere rappresentativa del progetto generale su cui ha costruito l’album?
«Potrebbe essere Meri Luis , una canzone fuori dal comune, che ha avuto una genesi complicata perché ci sono dentro quattro diverse storie. Ho sempre pensato che la parte più affascinante della musica sia il senso dell’aspettativa, non è tanto in quello che dici ma in quello che fai intendere, un senso dell’aspettare che è sottilmente angosciante, quindi piacevole, infantile, e infatti le canzoni più belle sono quelle del ritorno o della partenza, come… "all’alba se ne parte il marinaio" che cantava Claudio Villa. Di sicuro Meri Luis è quella che racchiude meglio lo spirito del disco, sono partito istintivamente da questo: in una grande città, chi e che cosa la gente può aspettare? C’erano tante possibilità e infatti prima di arrivare a questi quattro personaggi ne ho scartati almeno cinquanta. Il regista è una figura tipica del mondo odierno, soprattutto in una città come Roma, e il regista non può fare altro che aspettare, è un uomo di appuntamenti, o li buca lui perché è importante o gli danno buca perché non lo è più, o aspetta o fa aspettare. Poi c’è un ragazzo che lavora in un bar e aspetta che il padrone non lo guardi perché si è stroncato le gambe a forza di stare in piedi, un’aspettativa minore ma alla fine è la più importante perché lui non riesce a stare dritto. Il dentista è l’unico inquadrato, aspetta il sabato per andar fuori con la famiglia e tortura la gente per far presto. Poi c’è Meri Luis che ogni sera alle 7 e un quarto aspetta l’autobus, una ragazza dalle grandi tette che guarda in alto e magari la gente pensa che sia una stronza, invece lei è solo terrorizzata da queste tette grandi, alla Sofia Loren, che non vanno più di moda. Tutti questi personaggi sono lì che cercano di fermare la vita che gli passa accanto. Ma io sono convinto che ci siano piccoli meccanismi che possono rivoluzionare tutto quello che ci riguarda, per deviare la vita, tipo trattenere il respiro, in apnea, finché non ti passa, e lì tutto ti cambia e le storie improvvisamente hanno una svolta».
Le canzoni del disco sembrano molto diverse tra di loro nella costruzione. C’è anche una canzone d’amore, che sembra invece scritta come la scena di un film, è così?
«Cara, in origine si chiamava Dialettica dell’immaginario, perché all’inizio era nata come meccanismo progressivo d’invenzione del desiderio nei confronti di una persona, volevo una canzone classica, coi suoi momenti emozionali e riflessivi, e credo che sia venuta fuori una bella canzone, talmente classica che diventa insolita. Pensavo che i discografici neanche la prendessero in considerazione, e invece è quella su cui puntano, per ragioni diverse dalle mie, magari per il suo tono accarezzante, vorrebbero farci un singolo, ma a me non piace l’idea, oggi per me un 45 giri con due pezzi è una truffa, non tanto economica quanto di comunicazione. Anche perché il disco non ha titolo, e mi piacerebbe che la gente facesse come ha fatto col precedente (Lucio Dalla ndr), che si scegliesse le canzoni che preferisce…».
Quanto c’è di autobiografico in "Cara"?
«Sono uno che parla molto poco di sé nelle canzoni, almeno per quanto riguarda i fatti, ma ci sono riferimenti continui di cose che ho visto. All’inizio ero a tavola con questa donna e c’era uno spazio incredibile tra i miei anni e i suoi. Era una situazione affascinante e ho immaginato una macchina da presa che fa una zoomata, poi c’è un momento riflessivo: "cosa ho davanti, non riesco più a parlare, dimmi cosa ti piace, non riesco a capire dove vorresti andare», lì è un gioco musicale di rime, ma anche tra quello che penso e quello che vedo: "quanti capelli che hai, non si riesce a contare, sposta la bottiglia e lasciami guardare", chiaramente tutto questo non l’ho detto a lei, nella situazione reale. La canzone è spaccata, io racconto al passato come fosse il presente, poi alla fine mi trovo davvero al presente e dico: "spengo la luce e buonanotte, amen, così sia", come fossi in terrazza, non tanto a pensare all’amore, ma a fare i cazzi miei».
Poi c’è un salto, da una situazione così intima si va direttamente al cospetto degli Dei…
«In Siamo dei c’è questo personaggio che adoro, e infatti se dovessi cantarla in televisione la canterei in braghe corte. È l’uomo nel suo aspetto più disperatamente sgretolato, quando gli Dei gli dicono "siamo dei viviamo in uno spazio profondo, inseguiamo i tuoni ecc… ci pettiniamo, tu chi sei?". Al che l’omino rivendica i suoi meriti. Dice: ho un amico che è campione di rock e può ballare per tre giorni e tre notti di fila senza fermarsi, uno che ha una mira così precisa che tira un sasso e può staccare la coda di un cane, una ragazza che diventa pazza se non torno a casa. Ma gli Dei non lo accettano, non lo considerano e lui s’incazza: "ma te l’hanno mai detto che un Dio dovrebbe essere più bello", e lo dice quest’uomo bruttissimo, tutto peloso, gli dice "brutta specie di un aeroplano", che è bellissimo detto a un Dio… questi uomini cialtroni e picareschi vivono in modo animalesco la vita e infatti dice: "all’eterno ci ho pensato, è eterno anche un minuto, ogni bacio ricevuto". Io poi sono cristiano e credo cristianamente che quando esiste un’intensità sentimentale, erotica, l’eterno sia quel momento lì, non nella visione perpetua di Dio».
È intenzionale che a chiudere il disco sia una canzone che porta il futuro nel titolo?
«Per me Futura è la più bella, almeno come atteggiamento morale nei confronti della paura del futuro, che io peraltro non ho mai avuto, anzi ho sempre preferito il futuro a qualsiasi condizione del presente, ma intendiamoci, il futuro inteso come tra mezz’ora, non quello iper-galattico da lettore di Urania. Mi sono divertito a pensare ai russi e agli americani come pareti di piombo schiaccianti, delimitanti, perché non ti fanno vedere il domani se non attraverso il filtro della disperazione. Ho pensato a questi due ragazzi che affrontano questi problemi, con un dialogo tra reale e pensato, e mentre stanno scopando, lui/io.. dico: mettiamo al mondo un figlio, o una figlia, mi piace di più l’idea di una bambina, "e se è una femmina si chiamerà Futura", non lo dico mentre stanno scoppiando le bombe, ma mentre vanno i telegiornali, "questo nome detto in una notte come questa mette già paura", perché l’intuizione del futuro oggi è già una vittoria. Io odio la conclusione del rapporto d’amore, soprattutto il dopo, lui ha questo momento di tenerezza, dice: non girare la testa che voglio parlarti, poi di nuovo un momento riflessivo: "aspettiamo che ritorni la luce, ma senza aver paura del domani"».
È stato faticoso realizzare il disco?
«Direi che come sempre c’è lo sdoppiamento tra una visione tragica che riguarda il cinquanta per cento del mio lavoro, quella che mi fa pensare: che palle, dobbiamo ricominciare, e l’altro cinquanta che è la visione non solo ottimistica ma divertita, stupita di quello che può succedere a me, ai miei amici più intimi, e poi in generale a tutti. E poi c’è il fatto che queste canzoni, forse, speriamo, vanno nella bocca della gente, le usano, ci si spaccano il culo, gli scappano dalle mani, le riprendono, le modificano, le storpiano e poi le buttano via. Ecco pensare a tutto questo mi ha dato la voglia di fare il disco e dedicarlo a questo gusto che ho sempre avuto, ma sta venendo fuori sempre di più, per la vita».