la Repubblica, 25 giugno 2020
Finire come Floyd, in Italia
Domenica scorsa, a Fidenza, il 63enne Antonio Marotta è stato fermato da agenti della Polizia Stradale mentre guidava la propria auto senza la cintura di sicurezza. Nelle confuse fasi successive l’uomo, mentre veniva ammanettato, è stato colto da un malore che ne ha causato la morte. Di fronte alle parole di un familiare che accostava il decesso di Marotta a quello di Floyd, il procuratore della Repubblica di Parma ha dichiarato non esservi circostanze «da cui desumere la fondatezza di quanto aprioristicamente riferito ad alcuni organi di stampa»; e ha annunciato l’apertura di un fascicolo per «accertare l’esatta dinamica dell’accaduto». C’è da augurarsi che, al più presto, si arrivi a una ricostruzione attendibile, che dissipi qualsiasi sospetto, dal momento che sembra ritornare, anche in questa vicenda, un elemento che non può non inquietare. Ovvero una certa tecnica di fermo in operazioni di strada: come nel caso di George Floyd, del francese Cédric Chouviat e di tanti altri ancora. Una tecnica che sembra perseguire la punizione del trasgressore attraverso un atto di sottomissione: il corpo del fermato sopraffatto dal corpo in divisa. La modalità è la seguente: il fermato viene spinto a terra, in posizione prona, il viso schiacciato sul terreno, le braccia piegate dietro la schiena, i polsi ammanettati. Per impedire qualsiasi residua resistenza, l’agente grava sul corpo del fermato, premendo sul collo, sulle scapole o sulla regione sacro lombare. Quella stessa modalità ha conosciuto, anche in Italia, più di una tragica applicazione. Nel 2006 Riccardo Rasman, affetto da disagio psichico, viene immobilizzato da tre agenti nella sua abitazione. Il processo confermerà che «sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia» era stata esercitata «un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie». Nella sentenza per la morte di Federico Aldrovandi, ai quattro poliziotti condannati viene attribuita la responsabilità di «un trauma a torace chiuso provocato da manovre pressorie esercitate sul soggetto costretto a terra prono e ammanettato dietro la schiena».
Nel caso di Riccardo Magherini, morto nel 2014, la “compressione toracica” viene esclusa dalle sentenze di assoluzione dei carabinieri responsabili del suo fermo. Ma, secondo molte testimonianze, Magherini sarebbe rimasto prono a terra, con i polsi ammanettati dietro la schiena e tre carabinieri a gravare sul suo corpo impedendogli di muoversi. L’autopsia di Bohli Kaies, morto nel 2013, rivelò «stress cerebrale dovuto a una compressione violenta della cassa toracica» (gli autori del fermo sono stati assolti); mentre per Arafet Arfaoui, deceduto in circostanze simili nel febbraio scorso, è stata disposta la prosecuzione delle indagini. E la “compressione toracica” risulta dagli atti relativi alla morte nel 2014 di Vincenzo Sapia. Vicende molto diverse, con esiti processuali differenti, ma accomunate da quel soffocamento indotto dallo schiacciamento dell’apparato respiratorio. A tal punto questa tecnica risulta strutturalmente pericolosa che, nel 2014, una circolare del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, raccomandava: «L’immobilizzazione deve avvenire (…) con modalità che scongiurino i rischi derivanti da prolungate colluttazioni o da immobilizzazioni protratte, specie se a terra in posizione prona». In una nota esplicativa, veniva chiarito che «la compressione toracica può costituire causa di asfissia posturale». Come si vede, si tratta di un documento di notevole importanza perché rivela la consapevolezza, da parte dei vertici dei Carabinieri, della pericolosità di quella particolare tecnica. E il fatto che essa possa costituire una micidiale arma impropria nelle mani dei militari. Ma una simile manifestazione di saggezza non durò molto e, nel 2016, quella circolare venne abrogata. Ora, negli Usa, un certo numero di Stati e molte città hanno interdetto il ricorso a quella tecnica di fermo e in Francia è in atto un interessante dibattito sulla riforma della polizia. In Italia, tutto tace: non si considera, evidentemente, che il rapporto tra cittadini e apparati dello Stato, specie quelli titolari dell’uso legittimo della forza, costituisce un test essenziale per la qualità della nostra democrazia.