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 2020  giugno 24 Mercoledì calendario

Il «whatever it takes» sulla Treccani

Il whatever it takes di Mario Draghi, il costi quel che costi per salvare l’euro, diventa una voce della Treccani. È ormai un vero «modo di dire emblematico della salvezza dell’Europa e dell’euro», come segnala il testo del percorso linguistico pubblicato sul sito dell’Istituto. Ma è anche la controprova di come quell’espressione sia il più brillante atto linguistico dei tempi recenti. La concreta testimonianza del motto «le parole sono azioni» di Ludwig Wittgenstein o del «dire è anche fare» dell’inventore degli speech act, John Langslaw Austin, il tenente colonnello dei servizi segreti britannici diventato filosofo del linguaggio, docente a Oxford e Harvard.  

Il whatever it takes è la frase con cui Draghi, presidente della Bce, salva l’euro dagli artigli della speculazione. «La Bce, entro i limiti del suo mandato, farà tutto quanto è necessario per preservare l’euro» dice, a braccio, a Londra il 26 luglio del 2012 di fronte a una platea di investitori della City. Poi una pausa, teatrale quanto basta. Gli occhi si sollevano dai fogli del discorso ufficiale e guardano l’uditorio. Sembrano scegliere uno a uno gli astanti: «E basterà, credetemi». Così, quell’aggiunta fuori testo diventa dimostrazione di determinazione, prova di leadership, perfino una minaccia. Forse un bluff. La platea poco prima aveva ascoltato il discorso del Governatore della Bank of England, Marvin King, un misto di ironia e sarcasmo anti euro, sponda ideale per la speculazione internazionale impegnata a creare l’occasione per la spallata contro la moneta unica europea, squassata dallo shock greco. Draghi spiazza l’uditorio e la sua pericolosissima aria di supponenza. 
Per la prima volta dalla nascita dell’euro, la speculazione internazionale prende consapevolezza che il mercato non avrà mai un bazooka tanto grande da battere la volontà di azione della Bce. E che chi parla di fragilità dell’euro, dice Draghi nel passaggio ufficiale del suo discorso londinese, «sottovaluta la quantità di capitale politico che è stato investito nell’euro» che è e resta «irreversibile». Le Borse festeggiano, la febbre degli spread comincia a scendere. L’atto di parole prende la concretezza dei molti miliardi risparmiati come interesse sul debito pubblico e degli altrettanti accumulati come guadagni in Borsa. Per paradosso, nelle parole di uno degli oracoli della moneta, si materializza la suggestione filosofica secondo cui «il linguaggio è l’unico che può dare la morte al denaro». 
Il Tamigi diventa il Rubicone della politica monetaria. Quel whatever it takes segnerà un prima e un dopo nell’azione della politica monetaria. Sarà un «marcatore linguistico temporale» dice ora la voce della Treccani. Verrà ripreso più volte, sia da altri banchieri centrali – da Ben Bernanke a Haruiko Kuroda – sia dalla politica, in ultimo da Ursula von der Leyen con la variante del whatever is necessary per debellare la politica delle piccole patrie e degli egoismi nazionalistici. E lo spirito di quel motto –avverte ancora la voce della Treccani – torna anche quando Mario Draghi scrive sul «Financial Times» un articolo per suggerire le azioni per contrastare la pandemia del Covid-19 appena iniziata: prestiti garantiti dallo Stato a costo zero alle imprese per salvare il lavoro. Ancora una volta: velocità e parole d’azione.
L’abilità di Draghi nel saper gestire al meglio la cosiddetta “politica monetaria orale” trova ulteriore consacrazione nella scelta della Treccani, per la quale si è molto adoperato Giuliano Amato, di annoverare quella frase come espressione linguistica compiuta e unica. Del resto Bernanke, a capo della Fed nella tempesta della crisi Lehman Brothers, era solito dire che il mestiere del banchiere centrale «è per il 98% parole e per il 2% azione». E per Janet Yellen, a capo della Fed fino al 2018, proprio le parole erano «il principale strumento di politica monetaria». Draghi aveva piena consapevolezza di questo, tanto da aver creato per le conferenze stampa dell’Eurotower un appeal ben superiore alle fredde e noiosissime formule proprie della forward guidance monetaria.
L’«arte del banchiere centrale», così come la chiamava Ralph George Hawtrey, economista amico di Keynes, è un lavoro che mescola analisi economica, psicologia, sociologia, matematica e da qualche tempo anche le neuroscienze. I banchieri centrali sono soliti dire che, alla fine, conta la «regola del pollice», un mix di velocità e intuito, di esperienza e sperimentazione, di prudenza e determinazione. In fin dei conti, stando sempre a Hawtrey, una specie di infinita «ricerca della saggezza». Che è poi l’esercizio più puro del potere. Anche più forte e seducente di quello derivato dal privilegio di custodire la moneta e i suoi misteri fiduciari. 
Il linguaggio dei banchieri centrali è stato a lungo «mistico e oscuro», come ai tempi della Bank of England di Montagu Collet Norman o della Fed di Alan Greenspan. Poi è stato travolto dall’era della trasparenza e dell’accountability. Fiducia e reputazione sono rimaste però spada e scudo di ogni Governatore. E la lingua della moneta ha mantenuto intatta, anche all’epoca delle conferenze stampa globali, la sua caratteristica oracolare che «non dice, né nasconde, ma suggerisce» come era la lingua divina immaginata da Eraclito. Oggi si chiama moral suasion e deve condizionare le aspettative, possibilmente creandole, meglio se predisponendo le condizioni per la loro autorealizzazione. E vale ancora di più in questi tempi di incertezza e di crisi infinita. Perché, come ha detto il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco citando Elias Canetti, «nell’oscurità le parole pesano il doppio».