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 2020  giugno 24 Mercoledì calendario

La terza vita di Caldoro

C’è un vecchio così vecchio che diventa antico, e vale più del moderno. Non accade solo per i mobili, ma anche per i politici. Stefano Caldoro, candidato dal centrodestra per la terza volta di seguito alla presidenza della Campania, è uno di quei mobili, pardon, di quei politici. È in giro dai tempi della Prima Repubblica; socialista figlio d’arte (il padre è stato un dirigente del Psi); craxiano perinde ac cadaver , come nel motto di fedeltà dei gesuiti, le foto lo immortalano al fianco del segretario nell’ultimo oltraggio pubblico, quello delle monetine davanti al Raphael; poi passato con Forza Italia allo scioglimento del Psi. Persona per bene, uscita indenne da cinque anni di presidenza della Campania, che è come dire il Camel Trophy delle procure. Anzi, considerato un nemico dal malaffare, visto che quando nel 2010 fece la sua prima corsa contro De Luca tolse candidatura e vittoria certa a Nicola Cosentino, il famoso o famigerato signore delle preferenze di Forza Italia; e meno male, se si considera che Cosentino poi è finito in galera e condannato a 9 anni per collusioni con la camorra. I «cattivi» ce l’avevano così tanto con Caldoro che per toglierlo di mezzo la cricca del faccendiere Carboni, soprannominata anche P3, gli cucì addosso un falso dossier per far credere che frequentasse transessuali (che in ogni caso sarebbero stati fatti suoi, ma dieci anni fa si portava far politica così).
D’altra parte, se Caldoro è antico non è che il suo competitore di sempre, il «duellante» di tre campagne elettorali, l’immarcescibile Vincenzo De Luca lo sia di meno. Anche lui ha studiato da politico nella Prima Repubblica, e nella Seconda ha portato quella verve demagogica da «legge e ordine» che è sempre stato un tratto popolare del comunismo meridionale. Solo che De Luca ha trasformato l’antico in moderno, e si è rifatto un nome e una faccia tenendo discorsi da una tv privata, infiammando le folle come un predicatore americano, insolentendo a destra e a destra, e sostanzialmente piacendo, perché solo Zaia tra i governatori italiani ha avuto una pandemia di maggior successo della sua. Caldoro invece no. Lui non è mediatico. Diciamo pure che non se lo ricorda nessuno, per i cinque anni in cui governò la Campania tra il 2010 e il 2015. In quella sua prima volta contro De Luca stracciò però l’avversario nelle urne, lasciandolo indietro di undici punti. Erano ancora gli anni ruggenti del berlusconismo, il centrodestra sfruttò l’onda della crisi di popolarità di Bassolino, presidente uscente, e il gioco fu facile. A proposito di facce nuove: in quella elezione c’era anche un terzo candidato governatore, Roberto Fico, che racimolò un umiliante uno virgola qualcosa. La cosa curiosa è che Caldoro avrebbe molto probabilmente rivinto anche la seconda volta, nel 2015, soffocando così nella culla il mito dello «sceriffo rosso» di Salerno. Non fosse stato che per De Mita. Sì, proprio lui. Perché fu il Grande d’Irpinia, a sua volta eterno duellante con Craxi, ad affondare il giovane delfino craxiano: alleandosi a sorpresa, in zona Cesarini, la notte prima della consegna delle liste, con De Luca, e portandogli così in dote la vittoria per soli 66 mila voti.
Anche stavolta De Mita sta nell’Arca di De Luca, insieme con Mastella e Pomicino, e a uno sciame di listine fiancheggiatrici: in Campania il rinnovamento della politica procede spedito e la gara a chi è più antico forse non la vincerà Caldoro. Ma i voti dei vecchi boss della Dc non saranno stavolta di nuovo così decisivi: nel frattempo don Vincenzo è diventato una macchina elettorale che non disdegna neanche di offrire «fritture di pesce» agli elettori, come in un suo celebre discorso, e che è già riuscita a mandare il figlio in Parlamento.

De Luca parte insomma netto favorito. Al punto che verrebbe da chiedere a Berlusconi perché si è battuto tanto per candidare Caldoro, oltre che per fare un dispetto a Salvini. Ma il fatto è che l’ormai sessantenne ex giovane promessa, che cominciò la sua carriera politica 35 anni fa, resta la scelta più dignitosa che possa fare il centrodestra. Il che vuol dire che in dieci anni non ha prodotto nient’altro di dignitoso. Forse per non essere da meno del centrosinistra.