Corriere della Sera, 24 giugno 2020
Einaudi e il nostro dopoguerra
Caro Aldo,
come è potuta riuscire l’Italia del dopoguerra a costruire un’economia dinamica e competitiva, almeno fino agli anni ’80-90, nonostante una burocrazia inefficiente, uno Stato assistenziale e dispendioso, bassi investimenti in ricerca e sviluppo, un sistema scolastico-universitario abbastanza arretrato, bassa partecipazione femminile al lavoro, e un elevato livello di corruzione combinato a uno scarso rispetto delle leggi, sempre confrontandola alle altre nazioni europee?
Claudio Galimberti, claudio.galimberti@ gmail.com Caro Claudio,
quello che lei scrive è tutto giusto. Secondo le regole degli economisti moderni, l’Italia sarebbe dovuta rimanere povera e arretrata. Fino a poco fa, l’economia del nostro Paese veniva paragonata a un calabrone: secondo le leggi della fisica, non potrebbe volare; eppure vola. Aggiungerei alla sua disamina che la politica economica dei primi anni del dopoguerra – fatta in sostanza da Luigi Einaudi, ministro delle Finanze, governatore della Banca d’Italia, presidente della Repubblica – non era affatto keynesiana ed espansiva, al contrario di quello che si tende a pensare oggi. Fu invece una politica dura, ispirata al liberismo e al monetarismo: la lira non valeva più nulla, e la premessa per la ripresa dell’Italia era darle una moneta stabile e affidabile, all’estero e in patria (ora abbiamo il problema opposto: una moneta, l’euro, fin troppo forte; però questo è un altro discorso). Il prezzo da pagare era la rinuncia alla protezione sociale; ma per Einaudi prima bisognava creare la ricchezza, poi distribuirla. I dollari del piano Marshall servirono a ricostruire l’industria, non a pagare sussidi; cui Einaudi era contrarissimo, perché sosteneva che avrebbero creato vaste clientele politiche, bisognose del sostegno dello Stato – e quindi dei partiti – e poco motivate a intraprendere e a lavorare.
L’Italia, gentile signor Galimberti, divenne un Paese ricco per la disponibilità al lavoro e al sacrificio delle nostre madri e dei nostri padri, e per la loro capacità di pensarsi e talora diventare piccoli imprenditori.
Luigi Einaudi era molto paziente e disponibile con i giovani. Quando il figlio di un droghiere torinese gli chiese un articolo per la sua rivistina, specificando di non poter pagare, Einaudi rispose che l’avrebbe scritto volentieri, chiedendo solo di indicarne la lunghezza. La rivistina era La Rivoluzione liberale, e il giovane si chiamava Piero Gobetti. Se invece nello studio di Einaudi fosse entrato Luigi Di Maio a proporgli un reddito universale e garantito per tutti, temo che sarebbe stato purtroppo messo alla porta.