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 2020  giugno 23 Martedì calendario

Walter Lübcke, l’odio neonazi covato 4 anni

La sera del 15 ottobre 2015, Walter Lübcke affrontò un pubblico ansioso e incerto. Giocava in casa il prefetto di Kassel e popolare dirigente della Cdu locale, in quella assemblea cittadina a Lohfelden, sobborgo benestante della terza città dell’Assia. La Germania era in piena crisi dei rifugiati. Accolta all’inizio con entusiasmo, la decisione di Angela Merkel di aprire i confini della Germania a oltre 1 milione di profughi venuti dalla via balcanica, aveva suscitato paure e scontento. Solo lui poteva spiegare a quelle 800 persone venute a sentirlo perché era necessario accogliere quelle masse di disperati in fuga dalla guerra, convincerle ad accettare il centro di raccolta che il governo del Land aveva deciso di creare a Lohfelden.
L’atmosfera in sala era tesa. Fra il pubblico, diversi simpatizzanti di Kagida, branca locale del movimento islamofobo e anti-migranti Pegida, nato in Sassonia un anno prima. Lübcke non fece caso all’inizio a quei due giovani che sul fondo della sala filmavano con un cellulare l’evento. Ma gli ci volle poco a capire chi fossero. «Scheissstaat», Stato di merda urlarono più volte mentre lui faceva il suo discorso. All’ennesima interruzione, fece una pausa, poi guardò verso di loro e disse: «Vale la pena di vivere nel nostro Paese, del quale bisogna difendere i valori. E chi questi valori non li accetta, può in qualsiasi momento lasciare la Germania se non è d’accordo. È la libera scelta di ogni tedesco».
Walter Lübcke non poteva saperlo. Quelle parole furono la sua sentenza di morte. Ci sarebbero voluti quattro lunghi anni, ma il prefetto di Kassel iniziò a morire in quella sera d’autunno. Lübcke è stato assassinato un anno fa, mentre fumava una sigaretta sul terrazzo di casa sua da un killer venuto dal nulla. Aveva 65 anni. È il primo uomo politico tedesco dalla fine della Seconda guerra mondiale ucciso da un attivista dell’estrema destra radicale in Germania.
Il processo per l’omicidio di Walter Lübcke si è aperto martedì scorso nell’aula 165 dell’Oberland Gericht di Francoforte sul Meno. Andrà avanti probabilmente fino all’autunno. Sul banco degli imputati, Stephan Ernst e Markus Hartmann. Sono i due perturbatori di Lohfelden. A sparare in quella notte di giugno è stato il primo. Ma l’altro ha avuto un ruolo fondamentale di complice e ispiratore del crimine.
Quello dell’Assia non è un processo come gli altri. Un fanale, lo ha definito il Procuratore federale Dieter Killmer nell’atto di accusa. Gli occhi del Paese sono puntati su un procedimento, nel quale vengono al pettine tutti i nodi irrisolti della recente vicenda tedesca. Un servitore dello Stato è stato giustiziato con un colpo alla testa per aver difeso la politica della cancelliera Merkel. Non solo. Perché dopo Lübcke è venuto l’attentato alla Sinagoga di Halle. E poi c’è stato quello di Hanau. Mentre sindaci e politici venivano apertamente minacciati di morte. Nell’arco di pochi mesi, la Germania ha scoperto che la violenza della destra radicale è sistemica, che il neonazismo ha radici profonde nella società e che la presenza in Parlamento di un partito come Afd offre una sponda senza precedenti alle sue trame mortifere. «Tu, io, chiunque può essere il prossimo», avverte Cem Özdemir, deputato verde di origine turca.
Ma torniamo al racconto del procuratore, compendio di un odio covato per anni e di una preparazione lunga, meticolosa, sistematica. Poche ore dopo aver filmato Lübcke, Ernst e Hartmann postano il video sulla rete, dov’è presto un cult su tutti i siti dell’estrema destra. Il prefetto si trasfigura in «traditore della patria». La sua eliminazione diventa per Stephan Ernst un’ossessione. La rabbia e l’odio li ha già dentro. Teme «il definitivo sradicamento della razza tedesca». Tre mesi dopo l’assemblea cittadina ferisce gravemente a colpi di coltello un rifugiato iracheno. Il suo compare Markus Hartmann gli dà lezioni di tiro con la pistola in un bosco. Ma per la polizia nulla di tutto questo giustifica un monitoraggio permanente del nostro.
Ernst non perde mai di vista Lübcke. Più volte va a Wolfhagen-Istha, il piccolo villaggio dove il prefetto vive con la famiglia, studiando i luoghi e la villa, registrando orari e movimenti filmando tutto con una videocamera. Poi arriva la sera del 1° giugno 2019. Sono passati quasi quattro anni dalla frase incriminata. È poco prima di mezzanotte. Fa caldo. Protetto dall’oscurità Ernst salta la staccionata ed entra nel giardino, dal quale può vedere Walter Lübcke sul terrazzo, che fuma. Il killer sale dalla scala esterna. Gli arriva alle spalle. Impugna una pistola Rossi. Un solo colpo alla testa da distanza ravvicinata, che spappola il cranio della vittima. Morirà in ospedale due ore più tardi. Ernst commette però un errore, perché dopo aver sparato si piega sul corpo di Lübcke, lasciando tracce di DNA sulla sua camicia.
Lo prendono pochi giorni dopo. E nel corso dell’estate confessa. Poi però ci ripensa. Ritratta e accusa Markus Hartmann. Entra in scena il secondo uomo. È lui il guru, secondo la testimonianza di una sua ex convivente. Lui che dà un’inquadratura ideologica all’odio di Ernst. Lui che gli insegna a sparare. Ma è il punto più controverso del processo. Non tanto per la ritrattazione, che secondo il procuratore non è credibile. Quanto perché sarà difficile provarne la complicità, visto che Hartmann nega di aver saputo del piano omicida e che anche il procuratore tende a credergli.
Martedì la moglie e i due figli di Walter Lübcke hanno voluto essere presenti in aula alla lettura dei capi di accusa. «Un segnale contro l’odio e la violenza. Non possiamo lasciarci intimidire nella difesa della nostra democrazia», ha detto un rappresentante della famiglia.
L’esito del processo avrà conseguenze importanti sul dibattito pubblico e sulla coscienza nazionale. Il pensiero corre a quello contro la NSU, la banda neonazista che tra il 2000 e il 2007 uccise nove migranti e una poliziotta, tentò di assassinare altre 43 persone, rapinò 14 banche e compì tre attentati alla bomba. I tre membri ufficiali godettero della complicità di almeno 100 fiancheggiatori. Il processo si concluse due anni fa, con un solo ergastolo, quello di Beate Zschaepe. Gli altri imputati ebbero pene miti. Uno degli assassini fu liberato dopo la lettura della sentenza fra gli applausi della teppa neonazista presente in aula. Nulla sulle coperture che per anni permisero lo scempio. Nulla sugli errori di informazioni mai trasmesse tra le polizie dei Länder. Nulla sulle indagini razziste della polizia sulle famiglie delle vittime. Nulla soprattutto sui rapporti di alcuni membri della banda con i servizi civili. Una pagina vergognosa nella storia della Repubblica. Una pagina che il processo sull’omicidio di Walter Lübcke deve assolutamente esorcizzare. «Non basta non essere razzisti – ha detto il Presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier – bisogna essere anche anti-razzisti».