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 2020  giugno 23 Martedì calendario

Biografia di Luca Zaia

Non ha la panza del peronista bevitore di Peroni. Non si traveste da poliziotto o da pompiere. Non sventola il rosario ai comizi. Non chiude i porti per vantarsene in tv. Non dice ai poveracci che è finita la pacchia. Non mangia ciliegie sputando l’osso, mentre si parla di bambini morti. Non citofona chiedendo se sei uno spacciatore. Non dice a Bruxelles ‘siete un branco di burocrati e ubriaconi’, per poi chiedere l’ombrello all’Europa appena piove. Non si fa i selfie in spiaggia con le cubiste leopardate che ballano l’Inno di Mameli. Non annega un intero governo in un mojito per poi dire scherzavo. E nemmeno si sognerebbe di dire: “Ma potrò togliermi la mascherina davanti a una signora, o no?”, che resterà una tra le migliori idiozie generate dall’emergenza cerebrale scoppiata tra i titolari dell’opposizione.
Il chi non è si chiama Luca Zaia, 52 anni, plenipotenziario del Veneto, l’aria di uno che si sente a cavallo anche quando va piedi, giacca, cravatta, pantaloni a sigaretta. Leghista di conio veneto, con radici agricole e fronde impomatate con il gel. Uno che nella salita di questi mesi ha distaccato così tanto il suo segretario di partito, da averlo trasformato in una maschera al tramonto. Un gregario lasciato ad arrancare nel tunnel della Lombardia con i due compari più spompati, Attilio Fontana e Giulio Gallera, che ancora non hanno capito dove sono, cosa è accaduto e se qualcuno – a parte Bertolaso – li ha cercati.
Zaia, quando ha visto arrivare le nuvole della pandemia, ha puntato la sveglia alle 4.30 di tutte le mattine a seguire, è sceso in trincea con la dottoressa Francesca Russo, capo del suo Servizio prevenzione, ha arruolato i medici di base, messo le tende riscaldate fuori dagli ospedali, ingaggiato il virologo migliore, Andrea Crisanti, quello che ha isolato il focolaio di Vo’ e fatto tamponi a tappeto. Risultato: un decimo dei contagiati e un decimo dei morti rispetto alla Lombardia, sorella di autonomia, di reddito, ma non della stessa lega, metallurgicamente parlando.
Il consuntivo Luca Zaia lo indossa nello sguardo, ma non lo commenta. Dice: “Basta paragoni, non è bello e non mi interessa”. E poi: “Sono solo un buon amministratore, uno che risolve problemi e gli piace”.
Dice che conosce tre cose al mondo: i cavalli, il vino e un po’ anche gli uomini. La passione per i cavalli l’ha ereditata dal nonno. I vini li ha studiati all’Istituto di Enologia Cerletti di Conegliano, dove si è diplomato. In quanto agli uomini, cioè al serenissimo popolo della Nazione Veneta, ci è nato dentro, visto che nella sua infanzia tra le colline del prosecco e gli orti di radicchio, viveva in fattoria, col le galline in cortile e il tavolo da pranzo lungo otto metri “dove mangiavamo con nonni, zii e diciassette bambini”. Il resto glielo hanno insegnato i mestieri fatti in gioventù (“ho aperto la mia partita Iva a 18 anni”) il contadino, il cameriere, il muratore, ma specialmente il pr e i mille chilometri al mese masticati sulla Citroën 2 Cavalli, per organizzare le serate nelle discoteche della provincia di Treviso che avevano nomi da fumetto, il Diamantik, il Desiree, il Kolossal, e intrecci sentimentali da feuilleton. In una puntata ci è finito anche lui, quando ha incontrato Raffaella, segretaria d’azienda, con la quale ha messo su casa in un paesello trevigiano che sembra uno scioglilingua Bibano di Godega di Sant’Urbano più lungo dei suoi 6 mila abitanti.
Dopo due figli, il terzo nato è la politica, incrociata sul pratone di Pontida, anno 1993, quando ha visto per la prima volta l’Umberto Bossi da vicino, anzi “gli ho dato la mano ed ero emozionato”. E siccome Bossi gli disse sei dei nostri, ma senza il punto di domanda, un paio di anni dopo si ritrova nel suo primo consiglio comunale e a 30 presidente della Provincia di Treviso, il più giovane d’Italia.
Nei cinque anni successivi, invece di gridare Roma ladrona, inaugura 18 scuole, 400 rotatorie, capannoni e fabbriche riconvertite in spazi pubblici. Parla con tutti, imprenditori, sindacati, allevatori. E ascolta tutti. Non fa proclami, ma progetti. A forza di andare a Roma a chiedere soldi per i suoi contadini, Berlusconi nel 2008 lo chiama al ministero dell’Agricoltura. Dove affina le sue doti di massaggiatore democristiano, protegge le nostre eccellenze agricole, tra le quali anche quella di truffare sulle quote latte e sulle multe europee che il fior fiore dei secessionisti faranno pagare allo Stato centralista, cioè a noi.
Il Veneto ringrazia, lo acclama governatore con il 60 per cento dei voti nell’anno 2010. E lì si accomoda per i dieci anni successivi. Ereditando il disastro, anche criminale, dell’indimenticato Giancarlo Galan, nidiata Publitalia, quindi Dell’Utri, che ruba il rubabile, finisce in carcere, condanna patteggiata, disonore a vita.
Popolare più che populista, Zaia non si perde una fiera, una sagra: “Mi piace la mia gente, sono uno che parla italiano, ma ancora pensa in veneto”. Niente salotti, niente cene, niente mondanità, a parte le serate alla Biennale Cinema, dove compare con moglie e pettinatura adeguata.
Siccome non cerca rogne sta distante dalla politica nazionale. E dentro la Lega sta vicino a tutti i segretari in transito, prima Bossi, poi Maroni, poi Salvini, almeno fino alla svolta iper sovranista e alla frontiera del Covid-19. Un doroteo vecchio stampo. Un moderato che avvita la politica un giorno alla volta, come suo padre faceva con i ricambi in officina.
In cima alla Regione – dove ha vietato ai dirigenti l’auto blu – predica l’autonomia fiscale, guai a chi tocca gli schei, libertà d’impresa per i suoi capannoni, i suoi campi, rispetto per gli immigrati regolari che ci lavorano, strade per far correre le merci, scuole per il futuro dei ragazzi, tutela del passato. Nel titolo del suo primo libro Con le scarpe sporche di terra, c’è tutta la filosofia di Zaia, retorica compresa. Se darà frutti nazionali lo vedremo. Il migliore sarebbe diventare quello che non è ancora, archiviando il Capitano.