La ninna-nanna dell’"ultima leonessa” era Un bel dì vedremo di Puccini suonata dal compositore in persona. Succede se il papà è a capo di un impero economico e la mamma è una first lady dell’alta società. Succede se il nome sulla carta d’identità è Florio, un marchio di garanzia nel jet set europeo che fu: basti pensare che la “leonessa”, Giulia Florio, fu capace di tenere testa a Herbert Kappler per chiedere la liberazione dello zio Vincenzo, l’ideatore della Targa Florio, facendo in modo che gli arrivassero pressioni dalla Porsche e dalla Mercedes.
L’ultima leonessa è il titolo del libro di Costanza Afan de Rivera, figlia di Giulia Florio (a cura di Elvira Siringo, Sperling & Kupfer), che ripercorre il melodramma della famiglia di imprenditori che fece fortuna in Sicilia, fatto di lusso, ricchezza, amori, tradimenti, lutti, feste, rovesci economici. Solo che stavolta, dopo il boom editoriale di Stefania Auci, la storia è narrata dall’interno, da una discendente diretta della famiglia, attraversando i grandi fatti italiani, dal terremoto di Messina alle guerre.
Signora Afan de Rivera, è d’accordo che la storia dei Florio affascina perché sembra un’opera di Puccini, giusto per restare in tema col libro?
«Sì, melodramma pucciniano è una definizione perfetta. Io parlo sempre della storia dei miei nonni iniziando così: “Poteva essere una bella favola e invece non lo è stata”, perché effettivamente è iniziata come una favola ed è finita come è finita, spogliati delle loro proprietà. Ma resta una storia da ricordare».
Sua madre, figlia di una famiglia ricchissima, cresciuta con istitutrici e cameriere personali, decise di emanciparsi, di lavorare e di studiare. Perché?
«A un certo punto, a Roma, si è trovata nelle condizioni di decidere se continuare a fare la figlia di qualcuno oppure emanciparsi e diventare qualcuno. Ha scelto la seconda soluzione, ha chiuso un capitolo dei Florio siciliani e ha aperto un capitolo nuovo a Roma di una ragazza che per vivere doveva lavorare».
Ci sono due episodi che danno la misura della vita vissuta da sua madre. Uno è l’incontro con Puccini nell’albergo delle vacanze: che cosa diceva del maestro?
«Mia madre da neonata fu cullata dalla musica di Puccini, all’Abetone, dove la sua famiglia passava le vacanze e dove tornò negli anni. Adorava quelle arie. Lei era affascinata dalle sue mani sul pianoforte, dalla sua musica, dal fatto che una persona adulta, che non poteva sapere quanto fosse importante, si dedicasse a una bambina mentre gli altri erano fuori. Al maestro faceva piacere farle sentire la musica e insegnargliela».
E del faccia a faccia con Kappler, alla vigilia della strage delle Fosse Ardeatine, cosa le raccontò?
«Mi disse che lei era incinta di mio fratello e fu accompagnata al comando tedesco a Roma da papà che non fu fatto salire. Erano stati arrestati gli amatissimi zii, Vincenzo e Lucie. Kappler le fece fare una anticamera molto lunga forse per farle capire chi comandava lì, ma dopo che lei telefonò a un pilota tedesco che aveva partecipato alla Targa Florio scatenando le chiamate dalla Germania, alla fine si è in un certo modo scusato: è stato ad ascoltarla e ha capito che non era una signora qualunque ma una persona decisa a far emergere la sincerità dei suoi zii. È stato uno scontro fra giganti, Kappler da una parte e sangue Florio dall’altra parte. Indubbiamente in quell’occasione uscì fuori il dna migliore dei Florio: mia madre aveva tanto sangue dei Florio nelle vene, in tutte le sue cose che ha fatto ci ha messo determinazione, grinta, evocando il leone dello stemma di famiglia».
Restiamo in tema di nazismo: sua madre salvò diversi ebrei nascondendoli nella sua casa romana durante i rastrellamenti. Rivide mai quelle persone?
«Certo, tre giorni fa mi ha chiamato uno dei bambini nati nel palazzo in quei giorni: ci sentiamo spesso, ci raccontiamo cose, ci prendiamo in giro, conosco sua madre che mi ricorda sempre con affetto. È stato un periodo molto brutto per loro, oggi è rimasto l’affetto e la riconoscenza. Mia madre la chiamavano la reginella del ghetto. Quando lei morì, tantissimi parteciparono al suo funerale per una questione di gratitudine».
Della mitica donna Franca Florio, sua nonna, altro personaggio da romanzo, sorta di regina senza corona di Palermo, viene fuori un ritratto assai diverso dall’usuale: donna sola, tradita e dedita al gioco.
«Della mitica Franca mi baso solo sui racconti di mia madre perché io sono nata nell’anno in cui lei è morta. Racconti belli quanto amari: mi descrisse lo splendore della sua vita sociale, ma quando è finita la loro fortuna mia madre non ce la faceva a seguirla per alberghi e casinò. Lei giocava a carte per mantenere se stessa e mia madre. Essendo anche molto fortunata vinceva sempre. Indubbiamente alla fine “Greny”, come la chiamavano in famiglia, era una donna fragile: dover essere costretta a giocare per mantenersi, magari pensando al periodo d’oro, per lei sarà stato pesantissimo».
Che vuol dire, oggi, essere una Florio?
«Orgoglio e anche qualcosa di più. Quando sono arrivata in Sicilia e mi sono accorta che si cercava di fare affondare la storia dei Florio mi sono chiesta quale fosse il motivo e mi sono data una risposta; con la fine dei Florio Palermo e la Sicilia sono state schermate, non è stato creato più nulla e si è cercato di cancellare quanto di buono hanno fatto i miei parenti. E così ho deciso che dovevo ripristinare il fulgore di questo nome, andare nelle scuole, a parlare alle tavole rotonde. Lo faccio con molta tristezza perché trovo che questa famiglia dovrebbe essere studiata nei libri di scuola».