L’Economia, 22 giugno 2020
Infrastrutture, si riciclano le idee di Silvio e Matteo
Qualcosa si è inceppato nei meccanismi decisionali del governo giallo-rosso se otto tavoli di concertazione in 18 mesi e una crisi economica da pandemia non sono bastati per chiarirsi le idee su come far ripartire il settore delle infrastrutture, considerato strategico per la ripresa. Del piano-monstre da circa 200 miliardi, fatto trapelare dal ministero competente, ma ancora non ufficializzato, non si è parlato nemmeno al nono tavolo, quello apparecchiato a Villa Doria Pamphilj, la sede che sarebbe stata più indicata per un rilancio in grande stile.
I conti
E questa volta non si può nemmeno invocare il tema delle risorse. In vista dei contributi, più o meno a fondo perduto, che arriveranno nel nostro Paese, il settore delle opere pubbliche si attendeva qualcosa di più concreto del piano da 200 miliardi (196 per la precisione, di cui 129 già reperiti: ne mancano 67) battezzato ottimisticamente #italiaveloce, di cui non si è nemmeno discusso. Spulciando l’elenco delle opere che ne farebbero parte, 13 quelle ferroviarie, 39 quelle stradali, gli addetti ai lavori vi hanno riconosciuto gran parte delle opere strategiche della legge Obiettivo 2001 (governo Berlusconi) e i suoi aggiornamenti, riepilogati dal dossier del Servizio studi della Camera. Al punto che qualcuno ha collegato il piano attuale alla ricognizione delle risorse fatte dal ministro del governo Renzi, Graziano Delrio, che non fece in tempo a decollare. Di diverso, si fa notare, c’è una maggiore attenzione riservata alla dorsale adriatica e al Sud, frutto probabilmente di una sensibilità dell’attuale governo e della ministra Paola De Micheli.
I dati
Eppure i dati forniti dal dossier della Camera rivelano che, se nel 2016 c’è stata un’accelerazione delle progettazioni, nel 2017 sono ripartiti i bandi, nel 2018 sono cresciute le aggiudicazioni e nel 2019 gli investimenti, molto è dovuto alla spesa degli enti locali sul territorio relativa alle leggi di bilancio 2019 e 2020. La cui crescita, secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato, è stata del 16% nei primi dieci mesi del 2019. È per questo che la cifra destinata dal piano-monstre al capitolo «Rigenerazione urbana», pari a 850 milioni in 15 anni, ha deluso. Per fare un esempio, il piano per le città e la manutenzione proposto dall’Ance, l’associazione dei costruttori, prevedeva un investimento di 39 miliardi su un unico programma, recuperando le risorse dagli 11 già previsti dalla legge di Bilancio, e spalmate su 15 anni. La stessa associazione, tramite il presidente Gabriele Buia, ha espresso a Conte la preoccupazione che si creino «mercati separati», con quello delle opere strategiche riservato a player di una certa dimensione e con certi requisiti (la partecipazione pubblica?), cui vengano accordate procedure semplificate, secondo il «modello Genova».
E qui veniamo al probabile motivo per cui il piano-monstre tarda a emergere. Nel governo continuano a contrapporsi visioni strategiche diverse. Quella di Conte, colta tra le righe della sua introduzione agli Stati generali, sembra privilegiare il «modello Genova» che prevede di affidare ai commissari la realizzazione delle grandi opere strategiche. Una scelta che al ministero di Porta Pia sembra rappresentata dal viceministro grillino Giancarlo Cancelleri. De Micheli sembra più propensa a una semplificazione dell’attuale Codice degli Appalti, quello di Delrio, tramite un regolamento unico.
Cipe e responsabilità
La sintesi non c’è ancora e così il piano resta nell’ombra. I tecnici intanto lavorano a una riforma del Cipe (Comitato di programmazione economica), snodo fondamentale per l’attuazione dei programmi. Anche qui si fronteggiano due proposte. La prima, che si fa risalire al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Mario Turco, prevede che gli iter autorizzativi dei vari ministeri, che oggi si susseguono, procedano invece parallelamente. L’altra proposta, che si attribuisce al Mit, riguarderebbe i contratti di programma di Fs e Anas e i loro aggiornamenti che oggi prevedono 11 diversi passaggi.
L’idea è che questo venga applicato solo al rinnovo del contratto principale mentre, per gli aggiornamenti, i passaggi si riducano a 2-3. Solo per comprendere la portata dell’intervento, basti pensare che l’ultimo aggiornamento del contratto Rfi, da 14 miliardi, risalente al governo Gentiloni, è solo al sesto passaggio dopo due anni e mezzo.
C’è un ultimo tema cruciale su cui forse s’intravede una luce: la riforma della responsabilità erariale dei dirigenti e dell’abuso d’ufficio, dalla cui limitazione il settore si aspetta un assetto meno frenante della pubblica amministrazione. Sul punto Conte ha chiesto pubblicamente il supporto dei costruttori per vincere le ultime «resistenze» nei ministeri (sic).