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 2020  giugno 22 Lunedì calendario

Giova a Xi l’Occidente diviso

Diciamo la verità: è in corso una nuova guerra fredda tra Cina e Stati Uniti. La crisi del Covid ha solo esacerbato l’antagonismo. Sono rari o inesistenti i Paesi dell’Africa e dell’America latina in cui le due superpotenze non gravitano da rivali. Nel momento in cui i soldati cinesi e indiani si affrontano in un brutale corpo a corpo su una frontiera contesa, il segretario di stato americano Mike Pompeo si affretta a prendere le parti dell’India. È nato un Gruppo di ricerca sulla Cina ad opera di parlamentari britannici, che fanno in realtà “ricerca di opposizione” come nel caso dell’analogo gruppo di ricerca sull’Europa. Huawei è tirato in ballo in ogni circostanza.
Qualsiasi analogia storica è imperfetta, ma se la guerra fredda è in sostanza un conflitto mondiale, pluridimensionale a lungo termine tra due superpotenze, quella attuale è una nuova guerra fredda. Il problema per noialtri è cosa fare. Infilare la testa sotto la sabbia e pregare che il conflitto sparisca? È più o meno l’atteggiamento della maggioranza degli europei oggi. Oppure accettare la realtà e tentare di influenzarla? Siccome la seconda opzione è ovviamente la strada giusta ecco, in nove punti, cosa ci insegna la prima guerra fredda sulla seconda guerra fredda.
Pensare a lungo termine. La prima guerra fredda è durata più di 40 anni. La Repubblica popolare cinese vanta forze enormi, dalle sue pure e semplici dimensioni all’orgoglio nazionale, l’innovazione evolutiva, l’alta imprenditorialità del suo popolo e un partito leninista che dal crollo dell’Unione sovietica ha appreso il metodo per evitare lo stesso destino. Sarà una cosa lunga. Serve una linea strategica coerente, associata a flessibilità tattica.
Scegliere un approccio binario. La politica di distensione non era avulsa dalla prima guerra fredda, ne faceva parte intrinseca. Le democrazie liberali ebbero successo nel momento in cui utilizzarono, accanto a un approccio rigido di difesa e contenimento, la diplomazia e l’impegno costruttivo. I limiti che abbiamo posto su questioni come la sicurezza di Taiwan devono essere inequivocabili, ma altrettanto chiara dev’essere la nostra costante disponibilità a collaborare con Beijing. L’Ue definisce giustamente la Cina al contempo un partner, un concorrente e un «rivale sistemico». Considerato il livello di interdipendenza esistente tra la Cina e il mondo liberale e le minacce globali come il cambiamento climatico e il Covid 19, l’unica soluzione è un insieme di competizione e cooperazione.
Studiare le dinamiche interne dell’altra parte… La causa principale di questa nuova guerra fredda è l’evoluzione subita dal partito comunista cinese sotto Xi Jinping a partire dal 2012: più oppressivo in patria, più aggressivo all’estero. Dobbiamo capire il perché di questa svolta del partito-Stato cinese rispetto alla strategia più pragmatica ed evolutiva – “attraversare il fiume tastando le pietre” – che ha consentito l’ascesa pacifica del Paese per decenni, donando alla Cina grande fascino a livello internazionale all’epoca delle Olimpiadi di Beijing. E quali forze o circostanze potrebbero comunque riportarlo su un sentiero più pragmatico, evolutivo?
Serve tutta la possibile competenza sulla storia, la cultura e la politica cinese e sull’Asia nel complesso… ma non credere di poter avere un impatto diretto. Una delle illusioni ricorrenti della politica occidentale ai tempi della prima guerra fredda era che la nostra politica estera potesse avere un impatto diretto e prevedibile sulla politica interna dell’avversario, mutandola.
Ricordate le idiozie ispirate alla psicologia comportamentale sulle colombe e i falchi? Tutto l’insieme delle nostre politiche avrà nel migliore dei casi un ruolo secondario nel cambiamento del sistema e della società cinese. Evitiamo l’arroganza comportamentale.
Non possiamo dimenticare che abbiamo di fronte una società, oltre che uno Stato. Quanto più critichiamo – a buona ragione – la politica del partito-Stato nello Xinjiang, a Hong Kong e nel Mar cinese meridionale, tanto più dobbiamo sottolineare che non si tratta di un attacco al popolo cinese, con il suo bagaglio di storia e cultura affascinanti. Ogni azione e affermazione dovrebbe essere valutata in base all’impatto che può avere sulla società cinese, oltre che sul partito-Stato. In fin dei conti saranno i cinesi a cambiare la Cina, non noi.
La Cina non è l’Unione sovietica. Far tesoro dell’esperienza della prima guerra fredda significa anche capire che i tempi sono cambiati. L’Unione sovietica era un misto di leninismo e storia russa, analogamente la Cina fonde il leninismo di Xi con la cultura e la tradizione cinese. Francis Fukuyama sostiene che la Cina fu «la prima civiltà a creare uno stato moderno» e che per secoli «i regimi cinesi furono centralizzati, burocratici e meritocratici». Le forze e le debolezze della Cina derivano quindi da una combinazione di leninismo e capitalismo senza precedenti nella storia. Altri paragoni storici sono illuminanti, come quello con la Germania guglielmina ante 1914, moderna sotto il profilo economico ma lacerata da conflitti sociali, che sfidò la Gran Bretagna imperiale come Beijing oggi sfida gli Stati Uniti imperiali.
Nel dubbio fai una scelta etica. Assistiamo inorriditi alla tragedia di Hong Kong, all’oppressione totalitaria degli uiguri nello Xinjiang e alla repressione di coraggiosi dissidenti, imbavagliati dal regime. Il governo britannico ha fatto bene a offrire un percorso di naturalizzazione a più di tre milioni di residenti a Hong Kong, anche se non servirà a impedire che quella città verticale, magnifica sintesi di Oriente e Occidente, venga strangolata. È stata giusta la scelta di assegnare il Nobel per la pace a Liu Xiaobo, anche se non ha evitato al coraggioso e lucido patriota i tormenti e la morte in carcere. La Praga di Václav Havel ha ragione ad acclamare il Dalai Lama, anche se il drago, in risposta, sputa fuoco.
L’unione fa la forza. La Cina sta mettendo sotto sopra il mondo liberale. Beijing ha infinite possibilità di applicare la strategia del divide et impera. Un recente documento ufficiale, che traccia il nuovo “approccio strategico” di Washington all’altra superpotenza, stabilisce come primo obiettivo della politica statunitense «aumentare la resilienza delle nostre istituzioni, alleanze e partenariati» ma Donald Trump fa tutto il contrario. Una efficace risposta binaria alla sfida cinese esige un’unione strategica geograficamente più ampia dell’alleanza occidentale tra Europa dell’Ovest e Nord America prima del 1989. L’Ue, il Regno Unito post Brexit e la nuova amministrazione statunitense dovrebbero incontrare i rappresentanti di altre democrazie all’inizio del prossimo anno per individuare punti di incontro.
Le guerre fredde si vincono in patria. L’azione di gran lunga più importante compiuta dalle democrazie liberali per vincere la prima guerra fredda è stata rendere le nostre società prospere, libere, aperte e attraenti. Sarà così anche stavolta. Un mio ex studente cinese ha scritto un saggio affascinante sull’atteggiamento degli studenti cinesi che tornano in patria dopo aver frequentato le università occidentali. Conclude che l’esperienza di vivere in Occidente non li rende, come forse abbiamo sperato in passato, democratici liberali filo occidentali.Sono diventati invece “doppi dissidenti” fortemente critici nei confronti sia del sistema occidentale sia di quello cinese. A convincerli non sarà la nostra politica estera, bensì quello che facciamo in patria.
Ah, un’ultima cosa. Io la definisco una nuova guerra fredda perché, da saggista politico, devo dire pane al pane. Non significa però che per i politici occidentali sia consigliabile usare un’espressione dalla connotazione così negativa. I leader saggi non dicono tutto quello che sanno.
Traduzione di Emilia Benghi