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 2020  giugno 21 Domenica calendario

Intervista a Banana Yoshimoto

Vivere è sopravvivere ma sopravvivere è più che vivere. Banana Yoshimoto, l’autrice giapponese forse più nota al mondo, lo lascia capire nel romanzo ora in uscita in Italia, Il dolce domani, cronistoria di una riemersione dal lutto e dalla perdita, da una condizione esistenziale nella quale, dice l’io narrante, «essere sopravvissuta per me era ancora un peso». La protagonista non è morta nell’incidente che le ha portato via il fidanzato artista, benché abbia patito una ferita che ricorda quella della pittrice Frida Kahlo. Eppure incontri decisivi, e una muta interlocuzione con i fantasmi, le aprono gli occhi, che vedono «cose mai viste prima». Il libro era uscito in Giappone dopo lo tsunami e il disastro nucleare di Fukushima del 2011 ma, ammette la stessa autrice, sembra parlare al Giappone, e al mondo, del post-Covid.

Come ha trascorso il periodo dell’emergenza Covid? E con quale stato d’animo?
«In Giappone l’emergenza è stata più moderata rispetto all’Italia. Fatta eccezione per qualche trasferta, il mio lavoro si svolge soprattutto a casa, quindi la vita di tutti i giorni non è cambiata molto. Sono stata di più in casa, ho cucinato di più, come tutti ho vissuto con ansia il momento della spesa perché i supermercati erano molto più affollati del normale. Mio figlio adolescente è dovuto stare molto di più in casa, quindi abbiamo avuto più tempo a disposizione come famiglia. Questo ci ha permesso, ed è stato senz’altro positivo, di mettere da parte un bel po’ di nuovi ricordi tutti e tre insieme. Sul piano pubblico, invece, mi sono sentita spesso disorientata. Sono mancate regole chiare per il distanziamento sociale e ciascuno si è regolato come meglio credeva. Sono circolate molte fake news ed emerse le tante falle della politica. Quando la vita quotidiana diventa difficile, alcune professioni più di altre (soprattutto le attività commerciali in proprio) ne risentono, come in questo caso. Ho visto persone e attività affannarsi e crollare, e ogni volta era una grande sofferenza. Adesso mi sembra che le cose comincino ad andare meglio».
«Il dolce domani» è stato scritto dopo il terremoto del 2011 e il disastro di Fukushima. In che cosa si assomigliano le due emergenze?
«Oggi come allora sono circolate molte fake news. In entrambi i casi ho avuto modo di apprezzare gli aspetti positivi dei social network ma, allo stesso tempo, ho avuto conferma del loro lato peggiore. Un’altra somiglianza è nel grado di emozione delle persone, che cambia a seconda del luogo in cui ci si trova. Gli abitanti di Tokyo e quelli delle altre prefetture non provavano lo stesso senso di pericolo, né tantomeno la stessa paura. Di fronte a un nuovo virus si deve sempre prestare molta attenzione, ma una volta che si è capito che il contagio avveniva da persona a persona, ciascuno ha fatto in modo di seguire alcune regole base, come limitare i contatti sociali, lavarsi accuratamente le mani, evitare la frequentazione di luoghi affollati. Ciò nonostante, in molti sono stati presi dal panico o non sono riusciti a resistere, e anche il numero dei suicidi è cresciuto».
E l’economia?
«L’economia giapponese e il benessere dei cittadini, già in difficoltà, hanno subito un duro colpo, e ho l’impressione che questo abbia avuto un impatto drammatico sui più fragili. Le catastrofi naturali, per esempio i terremoti, non si possono prevedere, ma da parte mia voglio pensare di poter contribuire a controllare almeno in minima parte quelle in cui gli esseri umani hanno un ruolo determinante, come questa. Ho fiducia che, una volta comprese le caratteristiche del virus, nell’arco di sei mesi si possa riuscire a contenerlo in modo stabile, ma è essenziale accantonare le competenze e le risorse economiche per poter fronteggiare una nuova ondata».
Qual è l’effetto psicologico che il terremoto di Fukushima ha lasciato sui suoi connazionali?
«Ancora oggi la perdita simultanea di un numero così grande di vite umane pesa sulla psiche di molti di noi. Di colpo ci siamo resi conto che cose del genere possono accadere da un momento all’altro. Senza contare che in quell’occasione abbiamo capito che gli esseri umani non sono ancora in grado di gestire l’energia nucleare».
E l’eredità sociale e politica?
«Dopo quanto accaduto nessuno creda più di vivere in uno “Stato che aiuta i cittadini”, come era stato negli anni del miracolo economico nel dopoguerra».
Che impatto ha avuto la pandemia sul Giappone?
«Credo sia stata un’esperienza importante: persone diverse per estrazione sociale, genere ed età hanno condiviso lo stesso pericolo. Purtroppo però non mi pare ancora che questo abbia innescato trasformazioni positive. Ma forse qualche seme di speranza è stato gettato».
Il suo romanzo ha lo stesso titolo di quello Russell Banks che poi il regista Atom Egoyan mantenne per il film del 1997 che ne trasse. È un caso?
«Sono due storie molto diverse (il romanzo di Banks e il film raccontano di come tutti i bambini di una comunità muoiano nell’incidente del loro scuolabus, privando le famiglie del loro “dolce domani”, ndr), quindi non direi di essermi ispirata direttamente all’uno o all’altro, però ho amato molto il film di Egoyan e il titolo mi è rimasto dentro. Un altro film che mi ha colpito è Hereafter, di Clint Eastwood, che parla dello tsunami dell’Oceano Indiano del 2004. Un film bellissimo, secondo me».
L’io narrante a un certo punto scrive: «Essere sopravvissuta per me era ancora un peso». Lei si sente una sopravvissuta?
«Non lo siamo un po’ tutti? Faccio un esempio: quando nel 2018 la mangaka (autrice di manga, ndr) Sakura Momoko è morta, io, che avevo più o meno la stessa età e avevo vissuto nello stesso periodo storico, mi sono sentita un po’ una sopravvissuta. Perdere un’amica con cui parlare dei vecchi tempi fa sentire veramente soli».
Il barista di Okinawa amico della protagonista spiega che la chiave della sua resilienza è il figlio (e questo rimanda al libro di Russell e al film di Egoyan); i genitori del fidanzato morto si appoggiano alla protagonista, la quale vorrebbe che un eventuale figlio venisse considerato come un nipote dai mancati suoceri. Ha anche lei maturato la convinzione che i figli possano essere il «dolce domani»?
«I bambini sono la speranza. Lo sono tutti. È una consapevolezza molto semplice, qualcosa dentro di me mi dice che il semplice fatto che nascano dei bambini dovrebbe suscitare in noi gratitudine».
Leggiamo: «Questo mondo e l’altro ci mettono poco a mescolarsi. In effetti sono già mescolati in partenza». È anche la sua visione del rapporto fra realtà e trascendente?
«Ci sono istanti in cui è come se si aprisse uno squarcio sull’altro mondo. Quasi tutti i miei romanzi sono il racconto di quegli istanti».
C’è ancora spazio per un rapporto con l’aldilà che passi attraverso le religioni organizzate o siamo destinati a trovare forme di spiritualità fluide?
«Ho l’impressione che le religioni tendano a delineare dei confini. Ma a mio avviso per raccontare la psiche delle persone e il mistero dell’anima è quasi più necessario un approccio scientifico. Non saprei spiegare perché, precisamente, ma ho quest’impressione».
Nel suo romanzo ci sono immagini di persone scomparse – fantasmi – ed è ben presente anche quello che lasciano – l’amore che hanno dispensato in vita, le loro opere – mentre non ci sono immagini virtuali, i social. Ci siamo accorti che il mondo digitale è diventato in ultima istanza inessenziale?
«A una rappresentazione troppo esatta e diretta si rischia di sacrificare la malinconia e la delicatezza della nostra esperienza, ecco perché ho voluto privilegiare immagini più indirette e sfuggenti. Volevo che i personaggi del libro ricordassero al lettore quelli che abitano i suoi sogni».
In occasione del terremoto del marzo 2011 lei scrisse anche sul «Corriere della Sera»: «Credo fermamente che uno scrittore debba offrire speranza a tutti, qualsiasi siano le circostanze». È questo lo spirito con cui ha lavorato a «Il dolce domani»?
«Ho scritto questo libro per tutti coloro che hanno perso qualcuno, e per quelli che non ci sono più. So che questi ultimi non potranno leggerlo, ma so anche che nel 2011 molti miei lettori sono morti, e il libro è dedicato a loro. Scriverlo è stato un po’ come suonare un flauto davanti al mare, da sola».
Lo scrittore trova speranza anche personalmente attraverso la scrittura? Ma lo scrittore non deve anche «inquietare» il lettore, incrinarne le certezze?
«Penso che chi scrive si ponga in una posizione piuttosto neutrale. Non mi capita quasi mai di trovare conforto nella scrittura. Credo che si possano scrivere libri capaci di sprofondare il lettore negli abissi, ma lo trovo scorretto e cerco di non farlo. Faccio sempre in modo di lasciare, alla fine, un barlume di speranza».
Un romanzo come «Il lago», uscito in Italia nel 2015, evocava i rapimenti di cittadini giapponesi per mano di commando nordcoreani sull’arcipelago, un dramma ancora non superato. L’occasione de «Il dolce domani» è stato il terremoto-tsunami del 2011. C’è una realtà pubblica, politica, sempre più presente nel suo lavoro, anche se magari non in tutti i romanzi?
«Sicuramente. Voglio valorizzare la diversità delle esperienze, cantare la libertà. Credo che le generazioni future debbano farsi carico di tutto questo, insieme ai rischi che il loro impegno comporterà».
A che cosa sta lavorando ora?
«Sto scrivendo racconti online, storie che arrivino direttamente ai lettori, e un mail magazine. Con la speranza di avere presto una piattaforma accessibile contemporaneamente in tutto il mondo. Prima che ciò accada raccoglierò i testi in volumi che forse saranno tradotti. Anche se non mi leggeranno in tanti, spero di avere la possibilità di arrivare a chi ne ha più bisogno».