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 2020  giugno 21 Domenica calendario

Intervista a Chiara Gamberale

«Di colpo non c’è più nemmeno il tempo, sono sempre le due di notte», scrive Chiara Gamberale nel nuovo libro Come il mare in un bicchiere (Feltrinelli, il ricavato delle vendite andrà in beneficenza a CasaOz).
Al dodicesimo romanzo, un milione di copie vendute nel mondo, Gamberale racconta del malessere – precipizio, smarginatura – con cui ha combattuto fin da ragazzina.
Quaderno, memoir, questa è la testimonianza lucidissima e feroce di un tempo breve, quelle due di notte dilatate a cui lei era abituata e che per tre mesi sono diventate il tempo di tutti. Il mondo fuori si è fermato e, nell’emergenza, l’autrice, insieme alla parte di umanità in genere spaventata, si è scoperta più adatta di molti altri. Senza paura, loro che di paura ne hanno sempre avuta, a quaranta, venti, dodici anni («è da quando ne ho dodici che può capitarmi»). E più indietro: dieci, nove, due, l’età di Vita, che scavalca le sbarre del lettino, e comparendo in cucina annuncia: mamma, sono uscita.
La mamma è Chiara Gamberale, partiamo dall’inizio.
Chi è Chiara Gamberale?
«Mio padre sostiene di aver capito chi ero quando a cinque anni alzo lo sguardo al cielo e dico: non lo trovi struggente questo tramonto?».
Reazione?
«Essendo un uomo pratico, una vita intera a lavorare, ha pensato: aiuto. C’è un’espressione molto bella di Gabriel García Márquez per definire persone come lui: “Poveri coi soldi”. Perché quando nasci nella difficoltà, anche se poi ti affranchi, rimani col terrore di tornare lì».

Conseguenze su voi figli?
«Dovevamo impegnarci, fare del nostro meglio a scuola e fuori. Ci veniva richiesto di aderire il più possibile alla realtà».
E lei?
«Ho subito rivendicato l’indicibile e la fantasia, il motivo, credo, per il quale ho iniziato a scrivere prestissimo. Ma senza il senso del dovere che mi ha dato mio padre non sarei mai riuscita a trasformare la mia passione in una professione».
In «Come il mare in un bicchiere» racconta il tempo della quarantena, le scoperte che questa condizione ha portato.
«Mi sono ritrovata sola con una bambina di due anni. Non che prima non lo fossi, c’erano però il nido, i nonni, i suoi amici, i miei, che considero la mia famiglia».
Nel libro descrive il mondo che inventa per sua figlia.
«Ogni mattina zainetto sulle spalle, la mettevo fuori dalla porta. Lei bussava, e io: chi è? Lei: Vita. Aprivo. Buongiorno, maestra mamma – entrava. Da quel momento iniziava la nostra giornata. Abbiamo colorato cercando di rimanere dentro i margini, cosa per me difficile. Abbiamo fatto collane di pasta, omini di Pongo. Mi è sembrato importante trasmetterle l’idea che il tempo non si doveva per forza subire. Si poteva pure inventare».
Sempre nel libro torna indietro alla nascita di Vita.
«Molte persone, guardandomi con lei, ancora oggi mi dicono: sai che non avrei mai immaginato?».
Spiegazione?
«“Per essere un genitore niente male, un po’ bisogna conoscersi”, dice Donald Winnicott».
Lei si conosce?
«Un po’».
Quanto tempo per conoscersi?
«Dodici libri, e cento, mille luoghi sbagliati. Mi sono sentita la fidanzata di mio padre, la sorella gemella del mio ex marito, la madre o la figlia dei miei amici. Con Vita, da subito, ho avuto la fortuna di sentirmi proprio dove stavo».
Conoscersi le ha permesso di essere la madre che è?
«Io non lo so che madre sono. Ma se ti conosci, puoi cercare di dominare l’ombra invece di farti dominare e farle dominare i tuoi figli. Anche se è inevitabile trasmettergli l’imperfezione del nostro essere umani. E a me dispiacerebbe contagiare Vita con la difficoltà di essere serena. Vorrei che lei facesse meno fatica».
Eppure proprio nel libro la scoperta che chi convive con questa fatica nell’emergenza si è rivelato meno disorientato degli altri.
«In gravidanza tutti dicevano: vedrai la depressione post partu m».
E?
«Abituata com’ero a ben altre depressioni, neppure me ne sono accorta. Forse l’ho avuta, non so».
L’inizio del malessere?
«Chissà. Però ho cominciato a prenderne atto verso i sedici anni. Una delle prime cose che mi ha chiesto l’analista: mai avuto una Barbie, vero?».
Risposta?
«Vero. E mi ha spedito a comprarla».
A sedici anni la prima Barbie.
«Subito dopo, coi punti del supermercato, il grande orso di peluche che esiste ancora».
Ricostruzione d’infanzia?
«Ognuno di noi ha un’età che si porta dietro perché non vissuta. Per me si tratta dell’infanzia».
In che modo non vissuta?
«Diciamo che sono scesa presto dall’altalena, i miei mi amavano follemente ma l’infanzia che a loro volta avevano vissuto li ha portati a essere sempre molto critici, severi. Per dire: a cinque, sei anni in vacanza chiedo un vestito tirolese. Mio padre dice: no, perché non te lo metterai durante l’anno. Io insisto, imploro».
Ottenuto?
«Mai».
Con sua figlia però.
«Noi viviamo mascherate. All’inizio del lockdown, su Amazon, ho comprato due vestiti da Biancaneve, due da Cenerentola. Uno da Bella e uno da Bestia».
Giocare insieme.
«Secondo me Vita mica ha capito che sono la madre, pensa che sia la migliore amica».
In proposito lei parla di paradosso della maternità.
«Quando abbiamo letto Piccole donne. Lei voleva fare Jo, io anche».
Quindi scrive: «Mandiamo le altre tre sorelle a fare la spesa e così Jo rimane da sola, pero è in due. I primi anni di maternità non potrebbero riassumersi in questo paradosso?».
«Mi sono domandata e continuo a domandarmi».
Tornando al rapporto col reale.
«Le mie relazioni più importanti si basano su un’incondizionata fiducia in tutto quello che non esiste e un’indifferenza totale per tutto quello che invece succede davvero».

Lei dice che dopo il romanzo d’esordio, «Una vita sottile», non pensava di riaffrontare mai l’autobiografismo dichiarato.
«Intanto l’idea che quel libro sia ancora in giro mi fa l’effetto delle vecchie foto del liceo. Perché quella frangetta?, ti chiedi guardandole. E provi un misto di tenerezza e di vergogna».
Romanzo che dopo vent’anni continua a essere molto letto.
«Indipendentemente da quello che penso io, quel libro forse racconta ancora qualcosa a chi perde la relazione con il suo corpo».
Qui non solo torna all’autobiografia, ma si nomina: Chiara Gamberale, quando lì era solo Chiara.
«Esisteva una Chiara Gamberale anche in Per dieci minuti, ma non è detto che quando si chiamano come me i miei personaggi mi somiglino. Il personaggio che finora più mi somiglia per esempio è Mandorla, la bambina di Le luci nelle case degli altri».
Il peso di Chiara Gamberale reale?
«Sono più feroce con me stessa, nei libri precedenti non ero pronta».
Come nascono le storie?
«Per me c’è l’urgenza, poi la pressione dei fantasmi. Quindi la sfida stilistica: dove li vedo? E vado. Stavolta non c’è stato il passaggio da urgenza a sfida, non sono andata altrove, sono rimasta qui».
Cos’è «qui»?
«Ho scritto per cercare di capirlo».
E l’oggi?
«Mi farebbe rabbia non cambiare dopo la grande esperienza psichica che abbiamo vissuto. Io qualche cambiamento lo sto azzardando».
Ovvero?
«Lasciare l’analisi, per esempio».
Scelta difficile?
«Per me che non riesco ad abbandonare mai niente e vorrei vivere nel finale di 8½ , in quel girotondo con tutte le persone della nostra vita insieme in un eterno presente, sì».
Paura di rimanere sola?
«Sempre».
Anche adesso?
«Sì. Continuo a sentirmi comunque in mare aperto. Anche se ora ho Vita in braccio».