La Lettura, 21 giugno 2020
Dialogo tra John Grisham e Scott Turow
Non c’è dubbio che John Grisham e Scott Turow possano essere definiti i maestri del cosiddetto legal thriller. Anzi, forse è corretto affermare che di quel genere sono stati gli iniziatori. Prima Turow nel 1987 con Presunto innocente e a seguire Grisham nel 1991 con Il socio (entrambi pubblicati da Mondadori). Tutt’e due hanno un libro appena uscito o in uscita in Italia. Li ho incontrati nel corso degli anni per presentare i loro romanzi e Turow anche per la comune battaglia sulla tutela del diritto d’autore (è stato presidente del Sindacato degli scrittori americani). Caratteri diversi – Scott più aperto e gaudente, John forse più rigido e schivo – ma un comune senso di rispetto per la professione di romanzieri che li ha accomunati anche nella precedente carriera di avvocati (ma solo Scott pratica ancora). E questa è la conversazione che ci ha fatto ritrovare in Rete, a cavallo della fine del lockdown e dell’ondata di protesta per l’uccisione di George Floyd da parte di quattro agenti del Dipartimento di polizia di Minneapolis. Una riflessione sul presente, il passato e il futuro del legal thriller e delle sue implicazioni nella società contemporanea, tra pandemia e razzismo.
Scott, quando hai capito che saresti potuto diventare uno scrittore, accantonando la professione di avvocato per dedicarti a tempo pieno alla narrativa?
SCOTT TUROW — Be’, l’ho sempre voluto. Fin da quando, a undici anni, ho letto Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Ecco, forse fu quello il momento in cui decisi che sarebbe stato più divertente scrivere piuttosto che leggere un romanzo. E ci pensai fino ai vent’anni, però poi mi sono dedicato all’insegnamento anche se sapevo che non sarebbe stata la professione a cui ero destinato. Mi guardai attorno e decisi che, tra quelle a disposizione, studiare Legge fosse l’alternativa più interessante. Insomma, decidere di diventare uno scrittore è stata una giravolta imprevista della mia vita, anche se dentro sentivo che era la strada giusta da intraprendere. Così alla fine mi sono ritrovato con un contratto editoriale in mano, anche se ho continuato a trarre ispirazione dalla professione di avvocato, alla quale sono rimasto affezionato. Oggi sono socio dello studio legale, Dentons, uno dei più importanti al mondo, forse il più grande, e per loro di tanto in tanto svolgo appunto la professione di avvocato, soprattutto durante il fine settimana. Ho ancora un caso tra le mani. Ma non so per quanto tempo continuerò. Per un po’ potrei lavorare pro bono, ma credo che a fine anno smetterò definitivamente. John, anche tu eri un avvocato...
JOHN GRISHAM — Sì. Ma la mia carriera di scrittore non è frutto di uno di quei sogni che fai da bambino. Non ho mai pensato di diventarlo, non contemplavo l’idea di studiare per diventare uno scrittore. Poi a trent’anni, quando ero già avvocato, mi sono misurato per la prima volta con la narrativa. Per la verità non avevo la minima idea di che cosa stessi facendo. Non sapevo come avrei fatto per trovare qualcuno che mi pubblicasse. Scrivere era una specie di hobby segreto. Per tre anni ho cercato di finire un romanzo. Ero un avvocato molto impegnato in una piccola cittadina del Sud, lontanissima dalla Chicago di Scott e non solo geograficamente. Io e lui abbiamo storie molto diverse: il mio ufficio legale era un buco gestito da una sola persona in una piccola città del Mississippi. Non era un’esperienza esaltante né redditizia ed ero stanco di quella vita, volevo uscirne. Ecco perché decisi di finire quel romanzo. Era il 1987, Scott aveva già pubblicato Presunto innocente: un grande bestseller che amo, perché fa emergere il suo enorme talento. Ed è stato grazie a quel libro che ho deciso di darmi una mossa per terminare il mio. Ero invidioso di Scott, ma non di un’invidia cattiva. Pensavo a quanto fosse esaltante la vita di questo avvocato che praticava la professione (e lo fa ancora oggi) e nello stesso tempo scriveva. Fu una grande motivazione per me. Senza il suo esempio non avrei mai finito Il momento di uccidere.
SCOTT TUROW — John, perché non racconti quella storia che ti piace tanto, quella dove sei a bordo piscina e all’improvviso arriva tua moglie Renee...
JOHN GRISHAM — Ah, sì. Era l’estate del 1987, appunto. Quella sì che è stata una grande estate: Scott aveva pubblicato Presunto innocente, Tom Wolfe Il falò delle vanità, entrambi editi da Farrar, Straus & Giroux. E c’era un articolo – mi pare – su «Time», ora non ricordo bene, che parlava degli esorbitanti contratti editoriali firmati da autori come loro o come Tom Clancy. Erano dei grandi nomi. Io invece stavo appena cominciando la mia carriera di avvocato. Ma la rivista girava per casa. Ecco, quel giorno ero a bordo piscina coi miei bambini. Renee vide l’articolo, si precipitò fuori e mi disse: «Ehi, hai visto che contratti hanno fatto a quegli scrittori? Porta subito il culo alla macchina da scrivere e finisci quel romanzo!».
Come sono cambiate le vostre fonti di ispirazione nel corso del tempo? Siete sempre attratti dagli stessi dettagli, dallo stesso genere di storie?
SCOTT TUROW — Non saprei rispondere con precisione a questa domanda. Ecco, per me una buona idea è quella con cui posso convivere per un po’ di tempo. E se per me è un’idea interessante, so che potrò renderla interessante anche per il lettore. Comunque l’ispirazione è sempre legata in qualche misura al mondo del diritto penale. Non so come la pensa John.
JOHN GRISHAM — Io sono sempre a caccia di un’idea, fa parte del mio istinto naturale. Io e Scott siamo arrivati alla legge da direzioni opposte. E oggi apprezzo ancora di più la professione perché non ho a che fare tutto il giorno con clienti, avvocati e giudici. È un aspetto del lavoro che non ho mai sopportato. Io sono affascinato dalle questioni che ancora oggi sono al centro della cronaca qui negli Stati Uniti: il sovraffollamento delle carceri, la riforma del sistema di rilascio su cauzione, la pena di morte, la polizia, la corruzione endemica. Tutte questioni di cui ho scritto nei miei libri. Mi confronto con questi problemi da osservatore, ma mi interessa approfondirli attraverso i romanzi. Traggo spunto da questioni urgenti e le trasformo in una storia su misura per il lettore. Le mie idee prendono forma dalla lettura di giornali e riviste. Seguo processi, appelli, i contenziosi giudiziari. In questo Paese c’è un’infinità di materiale da cui trarre ispirazione.
Scott, si può dire che la realtà sia la tua principale fonte di ispirazione?
SCOTT TUROW – Be’, ad esempio con L’ultimo processo, il mio nuovo romanzo, mi sono concentrato sull’industria farmaceutica. Mia figlia lavora come avvocato per una di queste aziende importanti, e da lei sono arrivate alle mie orecchie tantissime storie. Ho scoperto che in termini di giro d’affari quell’industria rappresenta il 20% del budget del sistema sanitario americano. Quando ho cominciato a interessarmene guardavo con più favore a questa fetta dell’economia. Con il tempo invece ho capito quali trame si nascondono dietro questo business. È un mondo molto complesso, dal quale ho imparato anche in qualità di scrittore, non solo come cittadino. E mi sono divertito. Scoprire quando e come un farmaco raggiunge i requisiti per essere messo in circolazione è un tema scottante, soprattutto in un Paese segnato dall’abuso di oppioidi.
L’America è stata scossa nel profondo dall’assassinio di George Floyd a Minneapolis. Il Paese è stato attraversato da manifestazioni e proteste. Poi c’è stata la pandemia, che ha rivoluzionato il nostro modo di vivere, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo. Quanto incidono e incideranno questi eventi nella vostra narrativa? Pensate che si potrà continuare a scrivere storie senza tenere conto di questi passaggi drammatici?
JOHN GRISHAM — Non credo di essere uno scrittore che cambia a seconda di come gira il mondo. Il mio nuovo romanzo, L’ultima storia, è puro intrattenimento, un giallo che puoi leggere in spiaggia. Non è stato pensato per riflettere sulle grandi problematiche sociali, non è impegnativo. Il penultimo invece, L’avvocato degli innocenti, riguardava un caso di ingiusta condanna, un argomento di cui ho letto molto negli ultimi quindici anni e che mi ha permesso di raccontare l’inferno che passa una persona finita in carcere ingiustamente. In quel momento corruzione e ingiustizia erano al centro dei miei interessi. Ma ho scritto anche due libri sul football americano in Italia, uno sul baseball e diversi volumi per bambini. Insieme a libri più seri scrivo cose più leggere. Lo faccio per divertimento, per poi tornare a un argomento più impegnato quando mi sento ispirato in quella direzione.
SCOTT TUROW — C’è un’immagine che circola su internet di questi tempi e molti amici scrittori mi hanno girato. Raffigura la finestra di una libreria con un cartello con scritto sopra: «La sezione della fiction apocalittica è stata spostata in quella dell’attualità». Ecco, io penso che nessuno di noi sia in grado scrivere senza un riferimento al presente, a questo presente. Ma, come John, non ho intenzione di scrivere il grande romanzo post-pandemico. Continuerò a scrivere di ciò che mi interessa, anche se sono certo che in futuro arriveranno grandi libri su questo periodo. Magari succederà tra dieci anni, quando la prospettiva storica si sarà allungata, quando la distanza permetterà uno sguardo più distaccato sul virus. Di certo non è il mio obiettivo, alla mia età l’unico obiettivo è cavarmela come meglio posso, cercando di arrivare almeno al prossimo romanzo.
La morte di Floyd richiama alla mente una lunga serie di violenze inflitte nel tempo agli afroamericani. Questo caso è diverso dagli altri? Può essere la miccia che accende un cambiamento definitivo nella società americana rispetto al tema del razzismo e alla violenza che si porta dietro?
JOHN GRISHAM — La mia impressione è che il brutale assassinio di Floyd possa portare a un cambiamento. La sua morte è un messaggio, un avviso affinché si cambi rotta. Sono troppe le morti ingiustificate di tanti giovani afroamericani causate da poliziotti bianchi, morti di ragazzi disarmati sotto la custodia della polizia. Sembra sia arrivato il momento in cui ne abbiamo abbastanza, il momento in cui ci chiediamo se possa andare peggio di così, in cui ci chiediamo come reagire. Il Congresso ha cominciato a discutere nuove misure per modificare le tecniche usate dalle forze di polizia. Può essere un primo passo verso una nuova e più giusta direzione, anche se sappiamo che a Washington ci sono politici che non hanno alcun interesse a cambiare la normativa vigente. Le proteste non svaniranno in fretta, ma la speranza è che rimangano non violente: stanno calamitando l’attenzione della popolazione, di tanta America, anche bianca, scioccata di fronte a quello che accade, dai 9 minuti nei quali George Floyd viene ucciso da un poliziotto bianco. Continuiamo a vivere in uno stato di choc, fino al punto in cui ci chiediamo: e adesso? Noi bianchi non rischiamo di essere uccisi dalla polizia in mezzo a una strada, ma tanti giovani neri sì. È tempo che la protesta porti dei frutti. Dobbiamo far sì che la polizia venga controllata, che vengano tolti i fondi di cui non ha bisogno. Non hanno bisogno di tutti quegli elicotteri, di quei carri armati, alla polizia non serve un equipaggiamento militare. Questa volta sta accadendo qualcosa di diverso in America.
SCOTT TUROW — Sono d’accordo con John, stavolta si sente qualcosa di diverso nell’aria. Il video della morte di Floyd è così esplicito, così ovvio, che potresti renderlo a livello grafico attraverso un disegno. Se avessi raccontato la sua morte dalla prospettiva di un padrone bianco che uccide uno schiavo insubordinato qualche secolo fa, non avrei trovato troppe differenze con ciò che accade oggi: quattro uomini tengono fermo un uomo ammanettato, e uno di loro sta sul suo collo con tutto il suo peso. La crudeltà di tutto ciò è così ovvia che è impossibile negarla. È molto difficile immaginare un giovane uomo bianco trattato nello stesso modo. Ho lavorato a lungo con la polizia nella mia carriera di avvocato. In qualità di pubblico ministero ho fatto arringhe contro poliziotti negligenti, peraltro molto difficili da condannare perché la giuria popolare è sempre solidale con chi svolge un mestiere così pericoloso. Ho anche difeso dei poliziotti. Ho rappresentato il Fraternal Order of Police (Fop), una sorta di confraternita di agenti di polizia, nello Stato dell’Illinois. Erano miei clienti. Ci sono tantissimi poliziotti mossi da buone intenzioni, ne sono sicuro. George Floyd non era di certo un esempio da dare ai nostri figli, ma questo non può neanche lontanamente giustificare la sua esecuzione in una strada di Minneapolis. Spero che quell’omicidio porti voglia di cambiamento. Alla polizia non dovrebbe essere permesso di usare la tecnica dello strangolamento. Dalla morte di Eric Garner (strangolato a morte da un agente di polizia durante l’arresto a Staten Island, New York, il 17 luglio 2014, ndr) in poi abbiamo visto fin troppe morti del genere. Bisogna che ci siano cambiamenti strutturali: la polizia non deve più coprire gli agenti che compiono azioni illegali. Tutti sappiamo quanto sia difficile quel mestiere e quanto sia facile rischiare la vita facendolo, ma questo non li esenta da un giudizio morale. Il problema è il potere dei sindacati, le coperture attraverso cui mettono al sicuro i membri delle forze dell’ordine di fronte ad ogni eventualità. Così come il sindacato degli insegnanti si opporrebbe al licenziamento di un collega, quello degli agenti difende il posto di lavoro dei poliziotti. Come ha detto John, qualcosa va cambiato. Una volta per tutte.
Pensate che uno scrittore debba esercitare anche un ruolo sociale?
JOHN GRISHAM — Non credo, per scrivere un romanzo non bisogna necessariamente avere un punto di vista sui problemi del mondo. Qualcuno di noi lo fa. Il mio ruolo in quanto scrittore è quello di intrattenere i lettori. Non scrivo quella che viene considerata alta letteratura, i miei libri non circoleranno tra cinquant’anni come altri capolavori. Il lato più bello della finzione, anche quella scientifica, è che puoi trovare sempre il tuo posto. Non puoi pensare che il lettore condivida il tuo orientamento politico o religioso. E la cosa peggiore è irritarlo o insultarlo predicando a ogni riga. Non devi approfittarne solo perché hai accesso a un pubblico molto ampio, come me e Scott. Non puoi approfittare del tuo lettore, non puoi sempre fargli la lezione. Puoi farlo in piccole quantità, ma non sempre.
SCOTT TUROW — Porto nel cuore un consiglio: se vuoi mandare un messaggio a qualcuno, usa la Western Union. Bisogna stare attenti a sacrificare la sospensione della realtà nella quale si immergono i lettori. Rischi di allontanarli se cerchi sempre di insegnargli qualcosa. Credo che la politica non debba stare al centro del nostro mestiere. Quando ha ricevuto il Nobel, Faulkner ha ribadito che scrivere ha a che fare col cuore degli esseri umani, un cuore in conflitto con sé stesso. Il conflitto e l’ambiguità sono le situazioni nelle quali il lettore può trovarsi a proprio agio. I lettori amano l’ambiguità morale, il conflitto interiore. Anche quando scrivi di tematiche sociali come la pena di morte – un problema che ha una soluzione inevitabile, la sua abolizione – rimane sempre tra le righe un sostrato di ambiguità. È la missione di uno scrittore. Spero sempre che i miei libri riflettano le condizioni sociali degli Stati Uniti, è impossibile non farlo quando scrivi di legge, un ambito che governa le nostre esistenze e la nostra vita nella società. Detto questo, credo che l’arte debba illuminare e intrattenere, come sosteneva Aristotele. Questi sono i miei obiettivi: illuminare dove posso e soprattutto intrattenere i miei lettori. Non mi interessa mandargli dei messaggi.
Vorrei sapere se c’è un evento della storia americana che è rimasto impresso nella vostra memoria.
JOHN GRISHAM — Avevo 15 anni e vivevo in Mississippi, dove sono cresciuto. Ricordo che mi stavo allenando sul campo da football all’inizio di agosto, per prepararmi alla nuova stagione. La squadra era composta da soli bianchi, così come la scuola che frequentavo. Erano passati 16 anni dalla sentenza Brown, che aveva dichiarato incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche. Il nostro era l’ultimo distretto del Sud a non avere applicato quella sentenza e la Corte Suprema ci ordinò di avviare il processo di integrazione dal giorno successivo. Così, ventiquattr’ore dopo, un allenatore afroamericano si presentò sul campo con una trentina di giocatori di colore. A quel punto la mia carriera sportiva era finita. Erano troppo forti, non potevo competere. È stato un grande momento, la strada per l’integrazione era ancora lunga nel Nord del Mississippi, ma ce l’abbiamo fatta, abbiamo resistito e abbiamo vinto tutti insieme qui nel Sud.
SCOTT TUROW — Martin Luther King ha avuto un impatto enorme nell’America della mia gioventù. La sua visione della società ha fatto scuola. Mi chiedo sempre cosa sarebbe successo se fosse vissuto, quali cambiamenti avrebbe portato con le sue battaglie. Aveva ancora tanto lavoro da fare per migliorare questo Paese. Da ragazzo del Nord pensavo di sapere tutto sul movimento per i diritti civili, ero un attivista. Ma come tutti gli americani bianchi ho scoperto che non avevo capito la cosa più importante: quanto fosse difficile vivere da afroamericano nella prigione costruita dai bianchi. Sono orgoglioso dei progressi fatti. Non esisteva la classe media afroamericana quando vivevo a Chicago da ragazzo. Ora sì. Abbiamo ancora tanta strada da fare. Ma King ci ha messo su quella giusta.
Torniamo al vostro lavoro di scrittori. Perché, secondo voi, il «legal thriller» è diventato un genere così popolare nel mondo? I vostri romanzi vendono milioni di copie persino in Paesi come l’Italia dove il sistema giudiziario è completamente diverso da quello americano.
JOHN GRISHAM — Non saprei dire perché i miei libri vendano tanto in Italia e in Europa, ma so che in America abbiamo un appetito insaziabile per le storie che riguardano casi giudiziari, processi e azioni legali. Storie nelle quali i protagonisti diventano eroi. Forse è perché in America abbiamo tanti avvocati. E abbiamo tanti avvocati perché a noi americani piace querelare chi compie un torto nei nostri confronti, e perché dobbiamo fare i conti con un alto tasso di criminalità. Noi siamo pieni di diritti, di cui andiamo fieri. E se qualcuno ne mette a repentaglio uno, chiami subito un avvocato, fai causa, vai in tribunale. Non costa niente fare causa, non bisogna neanche pagare un avvocato, lo paghi quando vinci. Il nostro sistema è saturo di cause, di avvocati, di criminalità. Nel Dna degli americani scorre l’infatuazione per la legge. Per scrittori come me e Scott là fuori c’è un pubblico molto ampio di lettori che non vede l’ora di tuffarsi in una delle nostre storie.
SCOTT TUROW — John è un grande narratore, in grado di scrivere di argomenti anche molto diversi. Ma entrambi siamo affascinati dalla legge. Siamo anche stati fortunati, perché abbiamo cominciato a scrivere quando il pubblico americano si appassionava a queste tematiche, alla spettacolarizzazione dei processi, a situazioni piene di cavilli legali da risolvere. La legge ha raggiunto grande popolarità quando diventavo un adulto. In parte credo sia dovuto a una sorta di omogeneizzazione dell’America. Quando ero piccolo ero un grande fan del baseball, così come lo sono tuttora, così come lo è John. All’epoca le squadre migliori erano concentrate nel Nord Est. Ma quando il baseball ha raggiunto la West Coast e il Sud, l’America è cambiata. Il baseball è uno specchio del mercato americano: siamo diventati una nazione più unita quando il baseball ha raggiunto confini geografici lontani, quando ha ridotto differenze culturali e regionali, ammorbidendo anche gli accenti. Oggi puoi comprare un bagel anche a Birmingham, Alabama, cosa che non potevi fare quando ero un ragazzo. Quella era una cosa che trovavi solo nel Nord. Più siamo diventati una nazione e più abbiamo sentito il bisogno di una lingua comune per affrontare le nostre crisi e i nostri problemi. E grazie a questa nuova lingua abbiamo affrontato il diritto all’aborto, il tema delle madri surrogate, i diritti degli omosessuali. E il luogo dove si dirimono tutte le questioni legate alla nostra identità, al nostro presente, rimane in ultima istanza l’aula di un tribunale. Da lì passano tutte le decisioni che cambiano il nostro modo di vivere. Lo stesso vale per il caso Floyd: è una partita che si giocherà sul piano legale, il sistema legale dovrà proporre una soluzione. Sia io che John siamo stati fortunati a cominciare la carriera quando il pubblico si appassionava alle storie di avvocati nei tribunali. L.A. Law era lo show televisivo più popolare quando ho scritto Presunto innocente, e quando John ha pubblicato Il momento di uccidere e il suo primo bestseller, Il socio.
Come si scrive un legal thriller?
SCOTT TUROW — Se c’è una ricetta, ammetto che non l’ho ancora trovata. Ho appena letto L’ultima storia di John Grisham, e ciò che mi affascina di quel libro è che la prima parte, il 10%, è solo gossip letterario. Eppure c’è qualcosa nel modo in cui John scrive che ti lascia attaccato alla pagina nonostante l’omicidio, il caso che imprime una sterzata, sia ancora lontano, nel cuore del romanzo. La morte non arriva nella prima pagina e da lettore pensi che John non stia rispettando le regole di un buon thriller. Invece non puoi fare a meno di continuare a voltare pagina. Grisham dimostra che non esiste la ricetta di un successo letterario.
JOHN GRISHAM — Neanche io l’ho trovata questa ricetta. Ma penso che non sia necessario averla, perché non esiste una formula prestabilita, perché non vuoi leggere lo stesso libro ogni volta. Il nostro obiettivo è creare suspense, far sì che il lettore volti continuamente pagina, che si diverta a leggere il tuo romanzo perché si appassiona alle vite dei personaggi, alla trama. Tu vuoi che rimanga intrappolato in un intrigo e lui vuole essere aiutato a uscirne. Questa può essere a grandi linee la ricetta per un thriller. Non riesco a trovarne una più precisa.
Qual è il vostro metodo di lavoro?
JOHN GRISHAM — Io comincio sempre un nuovo romanzo il primo di gennaio di ogni anno. E di solito il libro è pronto ai primi di luglio – mentre parliamo ho quasi finito il prossimo. Gennaio, febbraio e marzo sono i mesi più impegnativi, quest’anno è stato più semplice perché la pandemia mi ha obbligato a rimanere chiuso in casa. Scrivo dalle sette e mezza del mattino fino a mezzogiorno circa, dopo quattro ore il mio cervello non è più in grado di funzionare e devo fare attività fisica. Scrivo in un piccolo ufficio, a casa, senza telefono, senza internet, senza musica né altre distrazioni. Non ho collaboratori. L’importante è che ci sia tanto caffè. È una gioia immensa questa routine. Quando il libro è pronto, ci vogliono circa sei settimane per l’editing e ai primi di settembre si va in stampa. Di solito l’uscita è a ottobre. Mi prendo qualche giorno di vacanza durante l’estate, ma intorno al Labor Day, che cade il primo lunedì di settembre, sono già annoiato. Così scrivo qualcosa di meno impegnativo, magari per bambini. Oppure storie di sport.
SCOTT TUROW — Ho delle idee per un nuovo romanzo in questi giorni, ma sono molto meno disciplinato rispetto a John. Più invecchio e più trovo difficile cominciare un nuovo libro. A differenza sua, quando scrivo sono connesso a internet e cerco di darmi un programma: mi alzo, leggo un quotidiano, bevo il caffè, salgo al piano di sopra e dico a mia moglie Adriane che vado a giocare coi miei amici immaginari. Poi diventa più facile seguire una routine quando mi addentro nella scrittura, quando il mondo dei tuoi personaggi diventa il tuo, quando quel mondo bussa alla tua porta. Come John credo che quattro ore di scrittura al giorno siano abbastanza, la considero una giornata di successo. Il mio maestro, il grande romanziere americano Wallace Stegner, diceva che per uno scrittore è fondamentale mettere il sedere su una sedia ogni giorno. Magari quel giorno non sei ispirato da una musa, ma devi almeno darle la possibilità di farti visita. In fin dei conti, scrivere è un lavoro come un altro. Devi farlo ogni giorno.
Quali sono stati i vostri eroi nella letteratura, i maestri senza i quali forse non sareste diventati degli scrittori di successo?
JOHN GRISHAM – Non credo di aver cominciato a scrivere perché ero ispirato da un autore. Ho sempre amato leggere. Mia madre non amava la televisione, avevo tanti libri a disposizione in casa. Sono cresciuto con Mark Twain, Charles Dickens, con le avventure dei fratelli Hardy. Poi ho scoperto i giganti della letteratura del XX secolo: William Faulkner, John Steinbeck, Ernest Hemingway, quando ero a scuola e negli anni dell’università. Mi sono innamorato di Steinbeck a 18 anni quando, all’ultimo anno delle superiori, ho letto tutte le sue opere. Ho tenuto per ultimo Furore, tra i libri che amo di più. Leggendo Steinbeck pensavo che mi sarebbe piaciuto scrivere in modo così chiaro. Nello stesso periodo leggevo Faulkner, perché in Mississippi è obbligatorio leggere Faulkner. Ma non avevo idea di ciò che scriveva. Il suo stile non era chiaro per me a quell’epoca. Apprezzo Steinbeck, ancora oggi. Lo rileggo per pura gioia. Amo anche William Styron. Il mio progetto durante la pandemia è stato leggere tutti e sei i romanzi di Walker Percy. Sono a metà. Ho sempre voluto farlo, perché lo ammiro molto. Tuttavia, non è grazie a questi grandi autori se scrivo. Amo leggerli, sì, amo studiare il loro uso della lingua, amo il loro processo creativo. Ma non è grazie a loro se scrivo.
SCOTT TUROW — A differenza di John io ho sempre voluto essere un autore, era la mia ambizione. Quando frequentavo il secondo anno di scuola superiore venne invitato un poeta inglese di nome Tony Connor. Seguii una delle sue prime lezioni. Un giorno gli chiesi un consiglio e mi rispose: «Non so come si scriva un romanzo, non so nulla di narrativa, ma se volessi diventare un romanziere leggerei tutti i romanzi che ho a disposizione». Quello è diventato il mio obiettivo, leggere tutti i romanzi che potevo, così da poterlo fare a mia volta. Ci sono scrittori che ammiro immensamente, come James Joyce. Anche se so che non potrei mai essere un romanziere della sua portata. Altri scrittori mi hanno colpito nel profondo e mi hanno offerto uno spunto per la mia futura carriera. Senza dubbio, Dickens. Sento ancora la sua influenza nel momento in cui creo i miei personaggi, nel mio approccio all’universo della finzione. Saul Bellow è stato l’eroe della mia giovinezza, ho scoperto più avanti negli anni che era stato compagno di classe di mio padre e credo si conoscessero abbastanza bene perché ho scoperto un carteggio tra loro quando erano entrambi morti. Non apprezzo tutto di lui. Certe volte, scherzando, dico che la trama di ogni romanzo di Bellow è un personaggio che se ne va da qualche parte. È tutto quello che accade. Il suo utilizzo della lingua e la sua abilità nell’usare espressioni della quotidianità lo ha fatto assurgere al ruolo di gigante della letteratura, è qualcosa di lui che ho sempre voluto imitare. Quando ero all’università, negli anni in cui leggevo di tutto, ho letto per primo Graham Greene. Ho letto I l potere e la gloria, e in quel momento ho capito che la letteratura di suspense avrebbe potuto catturare un’audience molto ampia. Secondo me, ogni scrittore deve cercare di raggiungere un pubblico vasto. Come autore di gialli, Greene rimane un modello come John le Carré, un grande del mio tempo. So che John la pensa allo stesso modo. I libri di tutti questi autori, insieme alle lezioni della mia insegnante Tillie Olsen – uno spirito uscito dalla Grande Depressione, una donna secondo la quale ciascun essere umano ha dentro di sé qualcosa di importante insieme a una storia da raccontare – hanno avuto un enorme impatto sulla mia carriera.
Che cosa pensate degli adattamenti cinematografici che Hollywood ha fatto dei vostri romanzi? Siete rimasti soddisfatti dal risultato?
JOHN GRISHAM — Sono stato molto fortunato con Hollywood, dieci dei miei libri sono stati adattati per il cinema. Uno era un documentario, uscito un paio di anni fa; un altro era un film per la televisione; poi ci sono state otto pellicole cinematografiche. Io non ho mai avuto alcun ruolo nella realizzazione dei film. Ho imparato a stare lontano dall’industria cinematografica di Hollywood. Non so come si faccia un film o come si scriva una sceneggiatura, sono troppo impegnato nel mio lavoro per pensare ad altro. Comunque trovo che i film tratti dai miei romanzi siano tutti godibili, mi sono divertito a guardarli. Molto tempo fa, il mio amico Stephen King mi disse che quando fai un contratto con Hollywood devi aspettarti di vedere qualcosa di diverso dai tuoi libri. Se non ti piace il loro modo di lavorare, mi ha suggerito Steve, non fare affari con loro, punto. I registi fanno i film, non gli scrittori: il loro è un mestiere diverso. E io ho seguito il consiglio alla lettera: se è un buon film sono felice, in caso contrario non me ne assumo la responsabilità. Mi prendo la gloria solo se il film è bello, perché sono l’autore del libro.
SCOTT TUROW — La penso come John. Steve è un amico comune e il consiglio che ha dato a John ricorda quello di Hemingway: la cosa più saggia che uno scrittore possa fare è portare i suoi manoscritti al confine tra California e Nevada, incontrare lì il produttore, lanciare i manoscritti nel territorio della California, prendere i soldi e scappare senza voltarsi. I libri che hanno avuto un successo enorme come Presunto innocente, o i romanzi di John, non avranno mai lo stesso pubblico su cui può contare il cinema, non avranno mai gli stessi milioni di spettatori. Senza dubbio un libro viene cambiato quando viene adattato per il cinema, per via della durata limitata di un film ma soprattutto perché ci mettono le mani altri artisti, con le loro sensibilità. I registi, gli sceneggiatori e gli attori aggiungono la loro personalità a un testo esistente, ci mettono un tocco diverso, interpretano il testo a seconda del loro bagaglio culturale. Se rispetti l’arte, devi permettergli di fare quello che sentono, devi permettergli di sfruttare il loro istinto, fidarti del loro istinto. Il film sarà diverso dal libro. Negli ultimi anni ho scritto anche per la televisione. È stata un’esperienza divertente, anche se rimango distante da quel mondo. C’è una ragione per cui vivo lontano da Los Angeles: non voglio essere risucchiato da quella realtà. Ho passato anni cercando di imparare a scrivere romanzi, non film e show. Non sarò io a dire al regista come deve fare un film.
E voi due come vi siete conosciuti?
JOHN GRISHAM — A una convention letteraria quasi trent’anni fa. Ci siamo visti a Chicago, siamo andati a vedere la partita di baseball dei Cubs, abbiamo cenato insieme. Scott è venuto una volta a Jackson, Mississippi, per una raccolta fondi che avevo organizzato. A mia volta l’ho aiutato quando ha organizzato un evento simile a Chicago. Non ci vediamo quanto vorrei, purtroppo, perché ci piace passare del tempo insieme, è divertente, così come è divertente quando ci vediamo insieme a Stephen King. Parliamo di cose che sono soltanto nostre. A proposito, Scott, ho letto metà del tuo nuovo libro: sono in paradiso, Sandy è il miglior personaggio che tu abbia mai creato, un personaggio che ci accompagna da trent’anni. Provo nostalgia leggendo queste pagine, provo nostalgia a essere di nuovo con Sandy e Marta nell’aula del tribunale. Sei in buone mani quando leggi Scott Turow.
SCOTT TUROW — Grazie, John. La cosa più bella di passare del tempo con lui è ascoltare le sue storie; apprezzo il suo modo di starti vicino. Ammiro ciò che ha fatto lontano dalle luci della ribalta, nel privato. Per esempio, le raccolte di fondi a sostegno di un’iniziativa come Innocent Project, che aiuta i carcerati reclusi ingiustamente. John è un cittadino modello, non soltanto del mondo della letteratura ma in quello in cui noi viviamo.
(ha collaborato Marco Bruna)