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 2020  giugno 21 Domenica calendario

Il catalogo dei colori di Lino Di Lallo

Il pigmento color mummia, anzi il «bituminoso marron mummia» sta in un classico tubetto da pittore. Commercializzato già nel 1904 dalla ditta specializzata Robertson di Londra, fu in produzione fino al 1964, poi, per carenza di materie prima (cioè di mummie a buon mercato), se ne sospese la fabbricazione. Ora, evidentemente, a chi occorresse, si va di “mummia sintetica”. Sintentico come il Vantablack, del resto, uno dei colori più chiacchierati degli ultimi anni: il nero più nero che ci sia: costruito in laboratorio con nanotubi di carbonio, assorbe tutta la luce d’intorno: una magia cromatica all’incontrario. Ebbene, sì, ce l’hanno, ce l’hanno anche questo (chissà se in accordo con Anish Kapoor, l’artista che lo ha chiesto in uso esclusivo): esposto con il suo bravo foglio di alluminio accartocciato accanto, per far vedere le arricciature (che avrebbe anche il materiale nero), ché, altrimenti, il nero Vantablack appare, ai nostri ingannati occhi, totalmente piatto.
Eccolo il paradiso dei colori rari: la incredibile raccolta della Forbes Pigment Collection al Museo di Arte di Harvard. Circa 2.500 esempi dei colori più rari, solenni e bizzarri del mondo: vecchi di migliaia di anni o del tutto nuovi. Naturalissimi o sofisticatissimi. Che dire – e poi la finisco, ché il solo elenco di meraviglie porterebbe via pagine – del cosiddetto «giallo indiano»? Un giallo ottenuto dalle urine delle vacche indiane (sacre, ci mancherebbe) ma, attenzione!, queste sono nutrite a foglie di mango, così che la loro pipì (solidificata) è di un bel giallo unico e inimitabile. Ne hanno una bella pallina sabbiosa ad Harvard. Altri pigmenti stanno in tubetti, boccette, fiale, barre, barattoli, granuli, polveri e così via: se non ci potete andare, accontentatevi del bel Atlas of Rare and Familiar Colours, iridescente libretto edito a suo tempo da Atelier Èditions (pagg. 224, oltre 200 illustrazioni, $ 38). 
Nella mia biblioteca è andato ad affiancarsi a un altro ancor più raffinato libretto: un piccolo, eccellente, Dictionary of Color Combinations  , dell’artista giapponese Sanzo Wada (1883-1967). Uscito in sei volumi negli anni 30 (era un precursore del grande Josef Albers) ora in una pseudo mini anastatica: 348 combinazioni insolite e liberissime di colori, avanguardia artistica giapponese che sta ancora nel futuro (Seigensha, pagg. 64, $ 30). Una strepitosa girandola.
Ma, da inguaribile letterato, niente mi sembra più incredibile e divertente della solitaria e, a suo modo, titanica (pur non essendo certamente esaustiva) impresa ora finalmente condotta a termine (è uscito il terzo volume) da Lino Di Lallo. Il quale, architetto-artista-performer-poeta visuale e chissà che altro, s’è inventato il fantasmagorico repertorio dei colori “fantasiati”. Ossia, una serie di descrizioni e citazioni di colori (che già vederli è un problema serio, i colori, figurarsi a descriverli) prese da poeti, scrittori, saggisti che sono dovuti ricorrere alla fantasia, appunto!, per esercitare il sacrosanto diritto dello scrittore di essere più preciso possibile: e dunque, dove non esiste corrispettivo, inventare di sana pianta, senza problemi e paure.
Mi spiego meglio. E traggo esempi solo dal terzo volume (dalla Q alla Z: dei precedenti si sono occupati, su queste pagine, Carlo Ossola e Paolo Albani, e sono più che lieto di essere in cotale “fantasiata” compagnia). Ecco il color quebrado che da Gongora a Cervantes assume sfumature diverse: il Franciosini lo traduce (1735) in «ulivigno, di color che tiene del livido» (che già è bello di suo). C’è il color risipelatoso, un bel rossore medicinale, il catalogo di colori arbasiniano («quanti colori negli anni 50»: tra cui un risotto e girasole, che fa il paio con le cartelle esattoriali color riso in cagnone che Delio Tessa lamentava di ricevere); il rosa depisissiano, che saltava all’occhio del suo amico Giovanni Comisso, mentre De Pisis, rispondendo a una lettera di Comisso gli parlava del rosa dentifricio; il rosa come il palato di un negro di Cesare Brandi (in Verde Nilo, 1963, appunto; e speriamo di passare l’occhiuta censura del politically correct); naturalmente il rosa Tiepolo (di Calasso, sì, ma, prima, di Proust: la veste di Madame Swann); il rosso morto della cartasciugante al rosso dei canonici e dei cardinali. E che colore sarà lo sbilenco di Landolfi, il color di smarrita di Daniello Bartoli, e ancora, in una vertigine: color buio stigio nei Licheni di Sbarbaro, tabacco di Spagna (Pirandello); i «barbison» color tané (Carlo Porta); colore di umido (Longanesi: precisissimo); colore di urina e di febbre (Nabokov); il fantastico culur del vent che il nostro amato Franco Loi vede negli occhi blu di una «faccia franca»; il verdeporro di Longhi, per finire con il (lo?) xantogenato, lo zalolino veneziano (che non è un giallino, ma un rosa, di rose secche, però) e i colori zuccherosi di tanti, fra cui l’ammirevole sir Alma Tadema.
Insomma – e qui ho escluso gli interventi poetici di Di Lallo, che sono sia verbali che visivi – è una carrellata di citazioni che ne fanno una tavolozza preziosa, di cui ognuno prende gusto a ciò che gli assomiglia di più, all’autore che ama maggiormente, ai sintagmi che lo incuriosiscono e divertono. La Tavolozza d’autore (è appunto il titolo dei tre libri, sottotitolo Il grande libro dei colori fantasiati, Il formichiere, pagg. 456, € 40) è un arcobaleno di parole. E Di Lallo, che ne ha viste, fatte e lette di tutti i colori, sa che non possiamo saziarcene.