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 2020  giugno 21 Domenica calendario

Le chiavi per aprire le Sonate di Beethoven

Immaginare Beethoven: per Andy Warhol è stato facile e dirompente. Poco prima di morire, nel 1987, prende un ritratto-icona, quello di Karl Stieler, e in una serie di quattro serigrafie lo reinventa, per blocchi di colori diversi. Sopra, come una scritta sul muro, gli sovrappone schegge dell’op.27 n.2, la mielosa Al chiaro di luna. Lo scorso 19 marzo, in un’asta di Sotheby’s a Londra, il quartetto – assai raro nella serie compatta – è stato attuto per la bella cifra di 275mila sterline. Non raggiungeranno questi numeri, gli studiosi italiani radunati nella Società italiana di musicologia (SIdM), e probabilmente nemmeno la popolarità dell’artista americano (figlio di umili emigrati lemchi). Ma hanno osato – presentata in questi giorni – un’impresa altrettanto audace: colta, in un mondo dominato dai colossi americani e tedeschi, e pop, perché destinata agli esecutori. Si intitola Progetto Beethoven e consiste in un enorme racconto, oltre milleduecento pagine in cinque volumi, delle 32 Sonate: il totem del pianoforte.
Monumento compatto, mai esistito prima (forse a eccezione di Bach, per la sistematicità della costruzione) e poi insuperato. Il corpus delle Trentadue diventerà un canone, un testo articolato di riferimento, spiega Giorgio Sanguinetti, che firma la puntata introduttiva del viaggio. La grandezza di Beethoven sta nella creazione di modelli. Inventati da un uomo nato nel Settecento ma radicalmente proiettato in avanti, sia nella scrittura, sia nella fruizione della musica. Persino oltre il suo tempo. Quando, ad esempio, non esisteva il concetto di Sonata per pianoforte destinata all’ascolto pubblico. Come prova il fatto che Beethoven non suonò mai all’esterno le sue Sonate (tranne forse una, e non si sa nemmeno se sia stata l’op.90 oppure l’op.79).
La musica per pianoforte aveva come interlocutore fondamentale il diletto delle dame – così si scriveva nel frontespizio delle edizioni di allora – giovani donne con tempo libero da occupare con lo studio, sedute composte e disciplinate sulla panchetta dello strumento (come prescrive Czerny, l’allievo di Beethoven, nelle scrupolose Lettere ad una giovane fanciulla sull’arte di suonare il pianoforte). Ma appunto, dilettanti. Le Sonate di Beethoven, sempre più impegnative, laboratorio di scrittura e di pensiero, non sembrano per loro. Si configurano con identità precise (esattamente come i Quartetti o le Sinfonie) formando un ciclo, di grande arcata. Solo la Baronessa Dorothea von Ertmann, giovane amica di Beethoven, poteva essere in grado di affrontare la 101, la ventottesima del catalogo. Del resto, al tempo di Beethoven, essere pianista non era un mestiere, come sarebbe a breve poi diventato. Non esisteva il concetto di repertorio. E anche per questo Beethoven, temperamento facile alle sfuriate, trovava del tutto inutile, anzi deleterio, anzi fraudolento, il vezzo che si stava diffondendo di eseguire a memoria. Quando gli presentarono il talento Czerny, che aveva per primo sfoggiato le Trentadue, tutte par coeur, il burbero maestro liquidò l’esecuzione come una trovata a effetto. 
Chi voleva suonare la sua musica, doveva tenere la parte sul leggio: innanzitutto per dare a Beethoven quello che era di Beethoven (e non spacciare per proprie pagine altrui) e poi perché la statura di un musicista si stabiliva in base alla capacità di lettura a prima vista. Una abilità che si è via via persa, peccato, negli interpreti, chini su un repertorio sempre più limitato. Giocoforza condizionando sensibilità e gusto del pubblico, sempre meno curioso. Quando Ferdinand Ries, allievo di Beethoven, nel 1804 volle eseguire di nuovo in pubblico il Concerto n.3, che il Maestro aveva eseguito l’anno prima, si trovò davanti una partitura dove i pentagrammi per l’orchestra erano tutti scritti, mentre quelli per il pianoforte erano solo abbozzati. Perché Beethoven era un improvvisatore. Ossia un compositore.
I volumi del Progetto Beethoven, a cinque mani, tre di prossima uscita e due programmati per l’anno venturo, nascono nell’ambito della collana della Libreria Musicale Italiana Repertori musicali. Dedita finora a studi di nicchia, al confronto (come le Sonate di Scarlatti, le Ballate di Chopin o la musica da camera di Debussy) osa la grande sfida delle 32 di Beethoven. Raddoppiata, nel peso e nel significato, perché calata nell’anniversario dei 250 dalla nascita del compositore di Bonn. E di incisività che si preannuncia pari all’altra innovativa pubblicazione promossa dalla SIdM, negli anni Settanta, quella Storia della musica, in dodici agili volumi, curata da Alberto Basso. A concertare il gruppo degli studiosi, Giorgio Sanguinetti, Leonardo Miucci, Federica Rovelli e Francesco Scarpellini, c’è Guido Salvetti (che firma il secondo volume). E non potrebbe essere che lui, maestro di chiarezza e profondità, da sempre sostenitore della necessità di interpreti consapevoli, informati. Contro la vulgata che al musicista sia sufficiente suonare, e basta. Perché chi più sa, più immagina.