Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2020
Il restauro della Sala di Costantino dipinta da Raffaello
Fu probabilmente tra l’autunno del 1518 e la primavera del 1519 (ma taluni fanno risalire la data al 1517) che Raffaello ricevette l’incarico di decorare, al secondo piano del Palazzo Apostolico, la superiore delle due grandi aule concistoriali («aulae pontificum superior et inferior», nella nomenclatura dell’epoca) destinate, nel corpo trecentesco dell’edificio, allo svolgimento di eventi a carattere pubblico o semi-pubblico come concistori, ambascerie e festeggiamenti per le nozze di congiunti del papa. Data la connotazione cerimoniale dell’ambiente e la valenza strategica della sua collocazione, sul percorso che dalle scale del piano nobile si dirigeva verso le anticamere e gli spazi interni dell’Appartamento Pontificio, grandi erano le aspettative legate al coinvolgimento dell’artista, allora all’apice della sua fama.
Prima che la morte, avvenuta il 6 aprile 1520, ne stroncasse inaspettatamente l’esistenza, quello che i posteri omaggiarono con il titolo di «Divin Pittore» aveva però fatto in tempo a ideare – e anche nel dettaglio, come fra poco si dirà – la decorazione pittorica della Sala.
Soggetto principale delle “storie”, che avrebbero dovuto rivestire, come finti arazzi, le pareti monumentali dell’ambiente, erano episodi tratti dalla vita di Costantino, simboleggianti il trapasso dalla dimensione politico-militare dell’antica egemonia imperiale a quella etico-religiosa del nuovo ecumenismo cristiano. Le vicende della Visione della Croce (o Adlocutio di Costantino ai suoi soldati), della Vittoria dell’Imperatore su Massenzio (o Battaglia di Ponte Milvio) e, in un primo tempo, della Presentazione dei prigionieri a Costantino e della Preparazione del bagno di sangue dell’Imperatore, sostituiti poi con le scene del Battesimo di Costantino in Laterano e della Donazione di Roma in Vaticano, avrebbero dovuto svolgere, ai quattro lati della Sala, un coerente ciclo programmatico, incentrato sulla trasmissione dell’auctoritas imperiale dalla Roma classica alla Roma cristiana.
Ai lati delle scene maggiori, inquadrate da bordure con fogliami alternati alle armi medicee si sviluppa poi un secondo ciclo figurato, comprendente le immagini di otto papi santificati, seduti in trono sotto baldacchini entro finte nicchie conchigliate, e affiancati da figure allegoriche alludenti alle virtù di ciascun pontificato. Completano la rievocazione della vita di Costantino i soggetti eseguiti a monocromo nello zoccolo, divisi da coppie di cariatidi sorreggenti lo scudo con le imprese dei Medici e quelle personali di papa Clemente VII.
Dai documenti d’archivio sappiamo che agli inizi del 1521 Giulio (Romano) era già al lavoro, impegnato con i compagni nelle prove sulle pareti. Gli era accanto l’amico Giovanfrancesco (Penni), detto il Fattore, con cui Giulio, sotto la guida dell’Urbinate, aveva già condiviso i ponti delle Logge. L’assegnamento del lavoro ai due giovani «gharzoni», a lungo osteggiato da Sebastiano del Piombo e da quanti, dopo la morte di Raffaello, avevano tentato di assicurare per sé l’importante commessa, era legato all’uso della pittura a olio su muro, all’epoca ancora nell’infanzia della sua sperimentazione, e al suo concretizzarsi, sulle pareti della stessa Sala, in due figure allegoriche di Virtù che, a detta del Vasari, furono eseguite «per mostra», a paradigma e dimostrazione delle possibilità della nuova tecnica.
Merito dei restauri appena conclusi sulle prime tre pareti della stanza (iniziati nel marzo 2015 con l’Adlocutio della parete est, proseguiti poi, nel luglio 2016, con la Battaglia della parete sud, per spostarsi infine, nel settembre 2018, sul Battesimo della parete ovest) è quello di aver identificato, nella prima delle composizioni nominate, la «facciata di mistura» che, secondo il biografo aretino, fu preparata da Raffaello e dai suoi «per farla a muro in olio, e poi, non riuscendo, si deliberarono di gettarla per terra e dipignerla in fresco»: e nelle allegorie femminili dellaComitas, alla destra dell’Adlocutio, e della Iustitia, alla destra della Battaglia, le due figure «ch’eglino [Giulio e Giovanfrancesco] avevano prima dipinte a olio che sono per ornamento intorno a certi Papi e ciò furono una Iustizia e un’altra simile». In corrispondenza dei soggetti nominati, infatti, e solo sotto di essi, la presenza di una densa chiodatura al di sotto della superficie pittorica può essere messa in rapporto con la procedura di preparazione della pittura ad olio su muro e più precisamente con la colofonia applicata in ampi strati per imbibire la muratura sottostante (la colofonia è un agglomerato resinoso che veniva steso a caldo per «intasare i buchi dell’arricciato» e «fare una pelle più unita per il muro», come si esprime in proposito il Vasari) ed essere quindi interpretata come vincolo meccanico utilizzato, durante l’asciugatura, per assicurare l’adesività alla parete della sostanza imbibente. Una volta portata a essiccazione, la superficie così trattata era pronta a ricevere lo strato preparatorio intermedio («imprimitura» o «mestica», come dice ancora il Vasari) e ricevere così il pigmento oleoso.
La possibilità di lavorare a olio su muro e di trasferire con ciò nella pittura murale i vantaggi di quella «da cavalletto» era una ricerca che accomunava, in quegli anni, gli ambienti artistici più avanzati della penisola. Che il ricorso a una tecnica così complessa possa essere stato anche solo proposto, all’epoca della commissione, da giovani poco più che esordienti appare assai strano, soprattutto alla luce dell’inequivocabile differenziazione stilistica che connota, specialmente dopo la pulitura, le figure in questione.
Che le due allegorie sopra nominate vadano identificate con quelle, dipinte a olio, ricordate dal Vasari, è un dato ormai certo e indubitabile. Le due figure sono anche le uniche, nel contesto degli affreschi, ad essere effettivamente realizzate a secco (propriamente ad olio, la prima, e con una tempera all’uovo addizionata di trementina, la seconda) e a mostrare così uno stacco tecnico, oltre che qualitativo, dalla totalità delle altre.
Ma c’è di più. L’analisi pacometrica delle strutture murarie così come quella fisico-chimica dei pigmenti adoperati confermano che, a dispetto delle intenzioni originali, la tecnica della pittura ad olio fu abbandonata in corso d’opera e che la parete con la Visione della Croce, nonostante la chiodatura preventiva stia lì ad indicare il contrario, fu eseguita ad affresco per seconda, scontando ritardi operativi indotti da insuccessi di cui sopravvivono le tracce. Diversamente andarono le cose per la parete della Battaglia che, in assenza di preparazioni equivalenti (ad eccezione della Iustitia, contraddistinta anch’essa, come si è detto, da una fitta chiodatura metallica), finì per essere affrescata per prima, mostrando in ciò un’adesione maggiore ai modi delle Stanze.
Una volta superato lo scoglio del medium pittorico, i lavori procedettero con una certa speditezza: alla morte di Leone X, il 1° dicembre 1521, gli affreschi nella sala erano giunti a «più della metà», ma subirono un’interruzione durante il pontificato di Adriano VI che, come persona «che né di pitture o sculture né d’altra cosa si dilettava», non si curò di fa andare avanti il progetto. Esso riprese soltanto nel novembre del 1523 con l’elezione di un altro colto personaggio di casa Medici, Clemente VII, «col quale – dice il Vasari – risuscitarono in un giorno, insieme con l’altre virtù, tutte l’arti del disegno».
Per il settembre 1524, le opere pittoriche erano finite. L’insieme della decorazione rivestiva completamente le pareti, trasfigurandole in una vibrante policromia, e un autore come Paolo Giovio, vescovo di Nocera e familiare di papa Leone X, autore di una Vita del Sanzio in forma di dialogo (1525-27), poteva riconoscere in esse l’estremo contributo del pittore all’arte universale. L’ammirazione suscitata dagli affreschi premiò anche la fama degli allievi che vi avevano lavorato, ma una predilezione speciale accompagnò, fin dal suo primo apparire, la scena della Battaglia, finita con l’essere dipinta per prima e dunque più vicina, nell’impetuosità del segno, all’originario dettato raffaellesco. Un frammento del cartone originale, oggi alla Pinacoteca Ambrosiana, è unanimamente assegnato a Giulio Romano, responsabile, con diversi aiuti, dell’esecuzione dell’affresco: ma il merito per l’ideazione prima della scena e degli infiniti personaggi che la gremiscono spetta in larga misura a Raffaello, come l’accurato modello del Louvre e alcuni disegni a Oxford, a Chatsworth e presso lo stesso museo parigino stanno a testimoniare. Anche il progetto per la Visione della Croce rimonta certamente all’Urbinate, con buona pace di quanti considerano il magnifico foglio di Chatsworth uno studio compositivo del Penni: ma le figure che più delle altre catturarono l’attenzione dei contemporanei furono quelle della Comitas e della Iustitia, la cui innegabile distinzione qualitativa le rende un unicum formale, oltre che tecnico, nel pur altissimo contesto che le circonda. Già Shearman, decenni prima degli attuali restauri, considerava le allegorie «quanto di più vicino» alle intenzioni di Raffaello e, riconoscendo che «né Giulio né il Penni furono mai capaci di un’invenzione così fluida, aggraziata ed equilibrata», si domandava se almeno per una di esse (la Iustitia) non fosse possibile riconsiderare «un’attribuzione a Raffaello» in persona. Tenendo conto delle diverse modalità con cui le due immagini si sono conservate, pensiamo anche noi che le evidenze critiche e scientifiche spingano in questa direzione: e che d’ora in avanti, parafrasando il Giovio, possiamo guardare ad esse come l’extremum opus dell’Urbinate in Vaticano.
Direzione scientifica del restauro