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 2020  giugno 21 Domenica calendario

I racconti amarissimi di Margaret Atwood

«Le è sempre importato più della gatta che di lei. La faceva stare male vedere come la tirava su per la coda e se la faceva scorrere tra le mani, come sabbia, e quanto alla gatta piacesse, da vera, nauseante masochista qual era. Era il tipo di gatta che sbavava di piacere quando la accarezzavi. Faceva la ruffiana con lui. Forse il vero motivo per cui non la sopportava era perché rappresentava una grottesca parodia pelosa in miniatura di se stessa. Forse era così che la vedevano gli altri quando era con lui. Forse era così che la vedeva lui. Pensa a se stessa, sdraiata, con gli occhi chiusi e la bocca mollemente aperta. Si ricordava com’era lei in quei momenti, quando lui stava con le altre?». 
Eppure Becka, colei a cui viene preferito il baffuto quadrupede, sembrava all’inizio del racconto una donna forte, battagliera, anticonformista, con il coraggio di dire quello che pensa e di andare per la propria strada. Il suo compagno si sentiva quasi una vittima, tiranneggiato da una donna più giovane e tanto indipendente. Le loro discussioni parevano schermaglie rituali tra maschi alfa, retinenti entrambi alla sottomissione. Ma Becka voleva un figlio.
Ora, lasciata da lui e accanitasi sul felino per rappresaglia, ricorda a mala pena di aver avuto fiducia in sé stessa, «si sente sudicia, vecchia». Hanno ceduto le fondamenta: non lottavano ad armi pari. L’impalcatura con cui cercava di affrontare il mondo non da subalterna si è sbriciolata. Tutta sua caparbia intelligenza non è servita ad altro che a condurla a quest’avvilente agnizione. 
«Il mio cuore non sanguina, si dice. E invece sì» conclude la penna impietosamente femminista di Margaret Atwood, in uno dei dodici racconti raccolti in L’uovo di Barbablù, alcuni inediti e altri pubblicati più di vent’anni fa, tradotti in italiano da Gaja Cenciarelli. Che siano ambientati nel primo dopoguerra o ai giorni nostri, quasi tutti contengono sconcertanti epifanie della condizione femminile.
Come quando descrive Sally, protagonista della novella che dà il titolo al libro. Anche lei pare all’inizio una donna realizzata e che ha pieno controllo sulla sua vita. È sposata con Ed, uomo bello e stupido, che lei adora proprio «per la sua monumentale e quasi vitale stupidità» («Sally sa per certo che le bionde stupide venivano amate non perché bionde, ma perché stupide. Erano la loro inettitudine e la loro confusione a renderle tanto attraenti sessualmente; non i capelli. Non era falsa, la carica di tenerezza che gli uomini dovevano aver provato per donne così. Sally lo capisce»). 
Una semplicità, quella di Ed, che Sally si diverte a prendere in giro bonariamente con le amiche, mentre con la sua sagacia s’arrangia a svicolare tra le difficoltà della sua vita di donna: si trova un impiego che non la impegna troppo ma che le consente comunque di far bella figura, con un capo raccomandato e inetto cui lei deve fare tutto il lavoro nell’ombra, cosa che a Sally non disturba affatto perché sa che così lui non potrà far a meno di lei. Del resto «ufficialmente a quest’uomo vengono attribuiti i meriti del lavoro di Sally, ma poi i dirigenti esecutivi dell’azienda la prendono da parte, di nascosto, e le dicono che è veramente una ragazza fantastica e che maga è nel fare la sua parte». La sua parte.
Ma man mano che la narrazione va avanti quelle che Sally presenta come furbe trovate, tattiche intelligenti, scelte misurate e argute, cominciano a mostrare delle incongruenze, delle crepe. E il suo ostentato equilibrio si rivela essere l’equilibrio instabile di una sfera sulla sommità di un colle. «Ma di cosa ha paura? Lei ha ciò che gli altri chiamano tutto: Ed, la loro casa meravigliosa a picco su un burrone, che era sempre stata il suo sogno. (Ma la collina è una giungla e la casa è di ghiaccio. Resta in piedi solo grazie a Sally, seduta al centro, impegnata a comporre un puzzle. E il puzzle è Ed. Se mai lo risolverà, se mai riuscisse a incastrare l’ultima, gelida tessera, la casa si scioglierebbe e volerebbe giù per la collina, e allora…)». Sally sa che se riuscisse a mollare tutto sarebbe più felice. È nauseata dall’introspezione. Là la sua sicumera s’infrange nella consapevolezza di non esser altro che una costola di Adamo: «Nel suo mondo interiore c’è Ed, come una bambolina dentro un’altra bambolina russa, invece in Ed c’è il mondo interiore di Ed, al quale lei non può arrivare».
Sally come Becka «sperava di avere un figlio tutto suo quando ha sposato Ed», ma a differenza sua «non voleva insistere sull’argomento. Ed non era contrario all’idea, ma, per essere precisi, ha reagito con un certo distacco, e Sally ha avuto la sensazione che coi figli avesse già dato. A ogni modo, le altre due mogli avevano avuto figli con lui e guarda come erano finite». Scoprirà l’ambiguo, doloroso e pulsante significato dell’uovo nella macabra favola.
L’uovo di Barbablù raccoglie infatti racconti ironici e amarissimi capaci di mettere spietatamente a nudo le contraddizioni di diverse generazioni di donne moderne mentre cercano di uscire dalla gabbia in cui sono relegate da millenni e dalle illusioni di cui si nutrono. Che s’ingegnano in mille modi pur di riuscirci, ma finiscono sempre per avvitarsi su loro stesse in una spirale perversa che per una strada o per l’altra le porta comunque a negarsi. Ecco dunque donne devote al loro capo come lo erano state al marito infedele; artiste che gli uomini si accontentano di guardarli (dopo aver provato a fornir loro una lista di istruzioni su come trattarle); ragazze libere e anticonformiste che l’adolescenza mette in ginocchio portandole ad allinearsi inconsapevolmente a una società maschilista; figlie cresciute da padri che definivano «sceme» tutte coloro che si trovavano in procinto di divorziare («A prescindere da chi avesse lasciato l’altro, la scema, secondo lui, era sempre la donna. Il suo più bel complimento a mia madre era che lei non era una scema»). Donne spezzate, donne scentrate, donne devastate dal «lato oscuro della terribile e deformante gentilezza» cui si conformano e che le ha segnate «come la conseguenza di una malattia invalidante». 
E poi c’è Loulou, ceramista di successo, un terremoto di donna che mantiene a casa sua un manipolo di poeti, tra mariti, ex-mariti e amanti. Uno schiacciasassi che pare inscalfibile. Ma «dietro tutto questo, cos’è veramente Loulou? Come fa a capirlo? Forse è quel che dicono i poeti, in fondo; forse ha solo la loro parola, le loro parole, per esprimere se stessa». Anche se a lei, di essere inventata, di essere reificata da questi, pare non importagliene molto: «all’improvviso capisce qual è la cosa di lei di cui hanno bisogno, anzi, forse l’unica cosa di cui hanno bisogno in assoluto: che lei sia proprio Loulou. Niente di più, ma certamente, niente di meno. Forse non è poi così male». Chissà.