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 2020  giugno 21 Domenica calendario

Dal Vate garofani rossi ai futuristi

Immaginatevi un giorno del marzo 1910. Al teatro Politeama Chiarella di Torino, con oltre duemila posti, il pubblico formicola in sala per una serata futurista. Filippo Tommaso Marinetti guadagna il palco con qualche problema giacché, dopo essere stato bersagliato da petardi, è aggredito con insulti e improperi. Non si perde d’animo, il tutto fa parte del gioco. Decide di declamare una poesia, la voce è coperta dai fischi, ma lui non si ferma. Alla fine, ottenuto un po’ di silenzio in mezzo a quella bolgia, il fondatore del Futurismo fa una dichiarazione, che è conservata in un soffietto anonimo pubblicato quale supplemento alla «Rassegna internazionale di Poesia». Afferma che quanto «avete avuto l’onore di fischiare è un brano della “Laus vitae” di Gabriele D’Annunzio». Conclude: «Il pubblico è spesso di un’imbecillità madornale».
Non si creda che i fatti di Torino siano eccezionali. Filippo Tommaso era incurante dei galatei, e ben lo capì Apollinaire che, pubblicando il manifesto L’antitradition futuriste (Parigi 29 giugno 1913), si trovò modificato il testo, giacché Marinetti intervenne prima che andasse in stampa. Risultato? Inserì D’Annunzio tra gli artisti, critici e pedanti, ai quali avrebbe distribuito «merda» e non «rose».
Quelli riportati sono due esempi del clima vissuto nei ruggenti anni del Futurismo e rivelano, almeno in parte, i rapporti tra Marinetti e D’Annunzio. E quest’ultimo, il Vate, è più vicino a tale avanguardia di quanto si possa immaginare, anche se il movimento lo copre a volte d’insulti e financo di pernacchie. Per esempio, Marinetti in un primo tempo non esita a chiamarlo “Poetino”; anzi in un manifesto tecnico, Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà, si scaglia contro «la concezione del libro di versi passatista e dannunziano». Di più: in D’Annunzio intimo, opera tradotta ora per la prima volta in italiano dal testo francese intitolato Les dieux s’en vont, d’Annunzio reste, Filippo Tommaso scrive che la sua opera, piena di «fuoco di fila di banalità», di «parvenu» e di «cocotte», è «la Montecarlo di tutte le letterature».
Le reazioni di D’Annunzio non si fecero attendere e, dopo aver definito Marinetti “nullità tonante”, gli rifilò la qualifica di “cretino fosforescente”. Non è il caso di riportare tutti gli insulti, anche perché a questi seguirono abbracci e parole d’ammirazione tra i due contendenti, soprattutto dopo il dannunziano Notturno, quando i futuristi riconobbero la natura parolibera dei versi del Vate. E nel 1919 il divino Gabriele visitando a Milano la Grande Esposizione Nazionale Futurista – testimonia un ritaglio di stampa conservato nel Fondo Depero del Mart di Rovereto – apprezza e loda, tra le altre, opere di Russolo, Balla, Carli, Evola.
La storia di questo incontro-scontro, terminata all’insegna del sorriso, è infinita: l’ha ricostruita con abbondanza di documenti Guido Andrea Pautasso nel ricordato libro D’Annunzio intimo (tradotto da Camilla Scarpa). Riporta anche il telegramma che Marinetti inviò al Vate nel 1937, quando fu nominato presidente dell’Accademia d’Italia. Comincia con le alate parole «A te gloria vivente della poesia italiana diventata mondiale».
Pautasso parla, tra l’altro, del loro primo incontro. D’Annunzio nel 1917 si reca all’ospedale di Udine per visitare Camillo Bianchi (il pilota della squadriglia del Vate) che era stato ferito. Questi gli fa notare che c’è anche Marinetti. Il divino Gabriele se ne va facendo finta di ignorarlo, ma di lì a pochi giorni ritorna e porta due mazzi di garofani: il bianco lo dona all’aviatore, quello rosso a Filippo Tommaso.