Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2020
A colloquio con Xavier Dolan
avier Dolan ha sempre inseguito nei suoi film un senso di solitudine spesso estenuata, prepotente, sovrastata da musiche troppo alte, ma con elementi di tale forza genuina e universale da far gridare, a ragione, al genio. Classe 1989, il regista canadese ha dimostrato, precocissimo, il suo estro: scrive e dirige il suo scarnificante esordio, J’ai tué ma mère, nel 2009, ad appena vent’anni. La pellicola successiva, Laurence Anyways e il desiderio di una donna, è del 2012, Tom à la ferme dell’anno dopo. I grandi festival lo monitorano e lo ospitano: nel 2014 con Mommy si aggiudica il Premio della giuria a Cannes e poi nel 2016 con È?solo la fine del mondo, ancora sulla Croisette, conquista il Grand Prix Speciale della Giuria e il Premio della Giuria Ecumenica.
La sua maniera di fare cinema si è imposta per un’urgenza vitale, sofferta e spettinata, i cui cardini sono la questione dell’identità sessuale (Dolan è omosessuale dichiarato) e la genitorialità al femminile fragile e distruttiva. Di solito tratteggia le sue storie con ampie pennellate di autobiografismo e protagonismo, ma non per Matthias e Maxime - sulla piattaforma Miocinema dal 27 giugno – o almeno non del tutto; quest’ultima è un’opera corale:«Volevo ritrarre un gruppo di amici in cui venisse in rilievo la componente della dolcezza e della tenerezza». Per questo Dolan ha scelto come attori persone che gli sono vicine anche nella vita reale: «Conosco Catherine Brunet, che impersona Lisa, da quando avevo otto anni; eravamo bambini-attori, doppiavamo assieme i film per la televisione. Con gli altri abbiamo un legame meno longevo, ma altrettanto forte. Insieme siamo una comunità, sensazione che non avevo mai vissuto nella mia vita».
La trama si articola in lunghe meditazioni e chiacchiere collettive, in serate di bevute e di stordimento: «Ho raccontato un pugno di amici con estrazioni culturali e sociali molto differenti, che quando parlano o ridono si trasformano in una cosa unica. A Montréal accade spessissimo. Parliamo indifferentemente francese e inglese, ma le origini sono disparate: dal Nordafrica, all’Africa nera, all’Oriente e nessuno lo avverte come un problema.
Le mie sceneggiature traggono linfa da ciò che mi succede, ma in questo caso non ho voluto fare esattamente una fotografia della mia vita. Ho mescolato le caratteristiche dei componenti del gruppo in modo tale che nessuno rappresentasse perfettamente se stesso. Non c’è traccia di spontaneismo. Abbiamo seguito una sceneggiatura, perché non siamo amanti dell’improvvisazione, che per qualcuno funziona, e invece per noi è sempre stata limitante, suonava falsa o artificiosa. La fluidità dei dialoghi è frutto di lunghissime prove che ci ha portati ad essere più naturali possibile».
Nella compagnia ci sono due amici legati dall’infanzia, Matthias (Gabriel D’Almeida Freitas) e Maxime, impersonato dallo stesso Xavier Dolan. Matthias è un giovane avvocato in carriera, fidanzato, di famiglia benestante. Maxime è un ragazzo spiantato, con una madre tossicodipendente e nessun avvenire chiaro. Quando il rapporto tra i due ragazzi va in crisi a causa di uno stupido scherzo, un bacio da recitare per un cortometraggio, entrambi capiscono che la loro esistenza, per come l’hanno costruita, è in pericolo: «Il tema centrale è quello della mascolinità. Nessuno attorno a loro rifiuta l’omosessualità, ma il problema è di come Matthias e Maxime si percepiscono. Cosa fai quando l’amore ti si presenta davanti inaspettato e ti comporta il rischio di ridefinire la tua identità? Può l’amicizia sopravvivere a questo? In questo senso la mia generazione è ancora bloccata rispetto ai giovanissimi, che sono molto più evoluti. Ho avuto un’avventura con un ragazzo eterosessuale di pochi anni più giovane di me, che l’ha vissuta con una leggerezza invidiabile. Tra noi e loro c’è un mondo».
Il bacio incriminato non viene mai ripreso: «Ho scelto consapevolmente di tagliarlo per creare uno stato di tensione e costruire il desiderio dell’effusione. Si vede al massimo solo riflesso nello specchio».
Dolan in Matthias e Maxime fa un uso deciso della macchina a mano con un’estetica anni Ottanta in stile videotape. All’opposto i colori sono più pallidi del solito. «Per anni mi sono sentito rimproverare che la mia regia era troppo urlata, colorata, intensa, pop. Ora che ho fatto un film più pacato, mi hanno contestato che non è abbastanza incisivo. Da quando ho raggiunto la fama con premi importanti sento addosso una pressione che prima non avvertivo. E stavo meglio. Mi sono accorto che ho fatto di tutto per compiacere il pubblico e la critica. Mi interessa moltissimo la reazione della gente. Non capisco come alcuni registi riescano a non leggere le recensioni dei propri film. Sto cercando il modo di stornare dal mio raggio visivo l’adulazione e la negatività. Solo così riuscirò a esprimermi con tranquillità».
Max ha sul viso una voglia rossa piuttosto invadente: «Sono sempre stato affascinato dalla gente che ha cicatrici e segni indelebili sul corpo, perché deve fare i conti tutta la vita con questo elemento che avverte come negativo e contro cui combatte. Io invece ho sempre dovuto lottare con ciò che di sbagliato la gente vedeva in me. Gli amici di Max non vedono più la sua voglia, per quanto ingombrante, perché lo amano. Questo fa capire come siano vicini, legati da una sorta di fratellanza. Una sensazione che ho provato con gli amici incontrati nella seconda metà dei miei vent’anni. Hanno riempito di pace le mie insicurezze, mi hanno fatto dimenticare il male che avevo dentro e che loro hanno riconosciuto anche se non era visibile. Questo film è un tributo alla pienezza che l’amicizia mi ha dato».